CALIFFO:
“SENZA MANETTE”
Come
prevedibile, il difetto di coefficiente d’apprezzamento da parte dei radical chic nazionali ha fatto sì che
Franco Califano sia stato commemorato “in scia” a Enzo Jannacci, non
cronologicamente ma per rilevanza assegnata alla morte di ciascuno di loro.
Fa anche
sorridere riferire al secondo l’aggettivo “apollineo” e al primo quello di “dionisiaco”
(così apre in prima pagina Il Messaggero
del 31 marzo 2013).
Eccezionalmente,
lascio il posto ad altra penna – peraltro nota anche ai lettori assidui del mio
blog – per una serie di impressioni e
riflessioni ([1]).
La parte
virgolettata nel titolo delle mie righe è, semplicemente, quello di un’autobiografia
del Califfo uscita qualche anno fa e che credo abbia venduto ben poco ([2]).
Steg
“IO HO
SCRITTO ‘TUTTO IL RESTO È NOIA’
(E TU
TE LO PRENDI IN CULO)”
“Io nun piango quando un uomo s’ammazza/il
suo sangue non mi fa tenerezza/anche se allagasse tutta una piazza”. Quando
negli anni ‘70 scrivevi “Io Nun Piango” una cosa non la sapevi, e cioè che i
tuoi Franchiani un giorno ti avrebbero disobbedito e avrebbero pianto e pianto
ancora, anche se tu non ti sei mica ammazzato come Piero Ciampi. Non ho mai
capito pienamente cosa ti legasse in quel modo a lui, così distante da te in
tutto e per tutto: gli avevi dedicato proprio quella canzone, a lui che si era
ammazzato davvero, a meno che non si voglia credere che il suo “male incurabile”
fosse venuto da solo. Il tuo te lo si leggeva in faccia, tanto eri risucchiato
nelle guance. Per me, che ti avevo conosciuto brillante e sempre in forma, era
una cosa da non credere.
Sgombriamo
subito il campo dalle pietose bugie. Tu non sei mai stato un idolo della
barricata da cui vengo io, così come non lo sei stato di quasi tutti quelli
della mia generazione più o meno di strada, anzi: i tuoi ‘Tac’ e i tuoi
Minuetti erano roba altra e di altri. Checchè ne dicano oggi, tu eri e restavi
un uomo di altri ambienti, tutti lontanissimi da noi, dalla tardissima notte al
Derby di Milano agli uffici delle major
del disco che riempivi con l’ultima canzone “perfetta per Sanremo, adesso
sentiamo la Mimì se no c’è la Patty, ma la Mina non la riusciamo a convincere”.
Perché nessuno ne aveva voluto sapere del tuo primo album da cantante-autore (“No,
UomoArtista tutto attaccato”, mi dicevi a denti stretti), e nemmeno del secondo
e di altri ancora. Perché puoi essere UomoArtista finché vuoi, Franco, ma se
poi ti mandano al DiscoRing di “Baila Guapa”, allora vallo a raccontare che
quello non è trash o roba da galera. Ironie della sorte, perchè la galera
-quella vera- te l’eri fatta con Chiari-Luttazzi prima e per Gianni Il Bello
poi, e dopo l’era-Tortora avevi dovuto ricominciare tutto da capo. E’ più
facile dirlo.
Ti ho conosciuto
grazie a Marco Mathieu (sì, l’ex Negazione) e alla quasi mitologica Rossella
Leonardi, alter ego di Richard Branson fin dai tempi dell’apertura di Virgin in
Italia (ho ancora la copia originale della biografia di Branson col tuo
biglietto da visita allegato, Rossella). Dovevo intervistarti per GQ Magazine,
e Marco mi aveva suggerito al direttore. “Occhio, se gli stai sul cazzo è
finita”, mi avevano bombardato per una settimana. Ma sono tutti così, avevo
risposto. Beh, tu così non lo eri per niente, a meno che non ti fossi piaciuto
tanto da volermi come road manager o cuoco personale. Che strano rapporto ne
venne fuori. Con te nessun argomento cadeva nel vuoto, dalla tua nascita quasi
in aereo ai tuoi problemi con lo showbiz
(“Guarda la faccia che mi ritrovo. Pasquale Squitieri va dicendo in giro che
sono l’unica faccia realmente internazionale che il cinema italiano ha a
disposizione. L’ho visto l’altro giorno e gli ho detto:”Embè, e allora perchè
tu per primo non mi hai mai fatto fare un film?”), fino a quello che non mi
sarei mai aspettato, come i racconti della galera (“Io sono stato assolto “perché
il fatto non sussiste” e non per non avere commesso il fatto, dopo tre anni e
mezzo di carcere, senza mai una lacrima o una lamentela, senza sbraitare, senza
dire nulla. E all’epoca non c’era il risarcimento dei danni”) e della tua
amicizia con Francis Turatello (“Un’amicizia di una vita, e io un amico non lo
tradisco”). E di questi argomenti me ne hai voluto parlare tu senza che io ti
avessi mai chiesto niente. Anche qui, è più facile dirlo.
Il revival di
popolarità sui giovani coatti di fine anni ‘90, i Music Farm e le sciocchezze
allegate (le cazzate di ‘Romanzo Criminale’, le leggende sulla Banda Della
Magliana eccetera) ti avevano un po’ spiazzato, ma quando ne parlavi ti
brillavano gli occhi. Ti piaceva pensare che il tuo vero valore di autore ti
fosse stato finalmente riconosciuto, ma anche oggi che non sei qui ti direi che
forse eri un po’ ottimista, visto che i tuoi veri capolavori (ad esempio il tuo
primo album d’inizio anni ‘70, Un
Bastardo Venuto Dal Sud) non hanno mai trovato orecchie all’altezza, per
quanto a loro modo memorabili fossero le tue più conosciute e molti tra i tuoi
monologhi, che fecero epoca. Tu la regolavi in modo secco: “Io ho un’alta
considerazione di me stesso come artista e come uomo, perché ci sono i valori.
Poi mi puoi pure dare del porco e del maiale, ma resta il fatto che io ho
scritto ‘Tutto il resto è noia’, e tu te lo prendi nel culo”. Noblesse oblige,
di quella autentica.
Quando ti avevo
detto dello slogan pubblicitario ideato da [Serge] Gainsbourg poco prima di andarsene
(“Gainsbourg non aspetta di morire per essere una leggenda”) eri andato in
visibilio: “Grande! Questa gliela rubo”. Non ne hai avuto bisogno, anche quando
ripetevi il tuo mantra: “Non voglio vedere nessuno dei vecchi colleghi dell’ambiente.
Ogni volta che ne incontro uno, questo mi dice: “Aho’, lo sai chi è morto?”. Ma
qui & ora è davvero difficile spiegare a chi non ti conosceva chi è morto,
oggi. L’ultima tua volta al Festival di Sanremo era stata con “Non Escludo Il
Ritorno”. Non tutti sanno che quella frase era l’epitaffio che avevi scelto da
anni per la tua lapide. Tra quelli che ti conoscevano non lo esclude nessuno.
Mentre chiudo
queste righe mi torna in mente che al telefono non amavi perderti in ciance,
impressione che ha poi avuto conferma. Un giorno Federico Zampaglione dei
Tiromancino mi dice: “Due sere fa mi telefona Franco e mi fa: ‘Tra un quarto d’ora
sono sotto casa tua, ti vengo a prendere’. Arriva, salgo in macchina, è quasi
il tramonto e lui guida senza dire una parola che sia una. Usciamo da Roma, e a
un certo punto frena davanti a un campo, spegne il motore e guarda il sole che
tramonta senza aprire bocca. Silenzio assoluto. Non parlo nemmeno io, e la cosa
diventa imbarazzante. Dopo un po’ mi giro, lo guardo e vedo che ha le lacrime
che gli rigano le guance. ‘Franco, cos’hai, che c’è?’. Lui si asciuga le
lacrime e rimette in moto verso Roma. ‘Scusa, volevo vedere il sole che muore.
Mi fa sempre piangere’”.
(Potete leggere una mia lunga
intervista con Franco Califano su
Glezos
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2013 Glezos, Milano, Italia.
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[1] Ho semplicemente aggiunto
un nome di battesimo, in parentesi quadre, per uniformità con lo stile degli
altri post.
[2] Ivi
trovate anche la riproduzione della copertina dell’album citato da Glezos.
Invece per la copertina
“famigerata” in cui Califano ha in braccio Eros Turatello, figlio di “Francis”
dovete fare altrimenti.
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