"Champagne for my real friends. Real pain for my sham friends" (used as early as 1860 in the book The Perfect Gentleman. Famously used by painter Francis Bacon)



domenica 26 febbraio 2012

I FRATELLASTRI DI ZIGGY STARDUST (Alladin Sane e Diamond Dogs)

Dog tag metallica
parte del merchandising del Diaond Dogs Tour



I FRATELLASTRI DI ZIGGY STARDUST
(Alladin Sane e Diamond Dogs)


Senza originalità, il mio canone bowiano è racchiuso nell’era del catalogo RCA ([1]).
 
Non vedo novità nello stilare una mia antologia che – ancora con poca fantasia – consisterebbe in discreta dose di versioni piuttosto che di soli “take” definitivi (siccome ufficialmente pubblicati); pur se è mia opinione che per scrivere di David Bowie si debba avere l’umiltà di una sua frequentazione ([2]) non tacciabile di una superficialità che, proprio con l’aumentare delle fonti a disposizione, si fa più evidente ([3]).
Consiglio a tutti di ascoltare qualsiasi registrazione in cuffia: diversamente molte sfumature vanno perse. Meglio un ascolto notturno, scevro di distrazioni di sorta.

Ho già scritto del brutto anatroccolo The Man Who Sold The World, ma dopo l’inequivoco cigno Ziggy (TRAFOZSATSFM, in breve) stanno i fratellastri Alladin Sane e Diamond Dogs, entrambi racchiusi in dovuta gatefold sleeve ([4]).

Il primo di questi due album è, obiettivamente, così inafferrabile che non ci si ricorda molto della sua essenza (le canzoni) bensì della sua forma (l’immagine di copertina con la saetta che traversa il volto bowiano). Curioso, anche perché essendo uscito in piena Ziggy-mania entrò a far parte di ciò che era suonato dal vivo nel 1973.
A parte leggere (non sullo schermo del vostro lettore MP3: non li riporta) i sottotitoli di ogni opera musicale che lo compone, provate a pensare “USA nella mente di un artista inglese nell’anno 1973” ([5]) e magari qualcosa salta fuori.
Oltre all’inevitabile, appunto, citazione di Vile Bodies  di Evelyn Waugh, vi invito a sviscerare il testo di “Time” e a non sottovalutare il respiro di Bowie perfettamente udibile nella registrazione.

I Cani di diamante, come semi-abortito concept album ispirato a 1984 di George Orwell ([6]) avrebbero ragion d’essere anche se la loro durata fosse di 5” al “minuto due della prima facciata”: il tempo di dichiarare “This ain’t rock and roll/This is genocide!” ([7]). 
Ma le salivanti fauci in costume peellaertiano (senza dimenticare il film Freaks) non lasciano la preda.
Il disco può essere sgradevole e come tale non apprezzato. Però nessuno può evitare d’inchinarsi al riff perfetto che apre “Rebel Rebel” e schierarsi di conseguenza; perché questa canzone è la nemesi generazionale ([8]).
Gli è che si prosegue ancora, lungo strade che saranno poi percorse con altra visione: ironicamente “1984” è già il plastic soul di Young Americans.

Infine, rammento: è il 1974, David Bowie ha 27 anni e si sente oltre l’età di scadenza (si cfr. “Time”, ma già “All The Young Dudes”) da 2.

                                                                                                                        Steg 
 
© 2012 Steg, Milano, Italia.
Tutti i diritti riservati/All rights reserved . Nessuna parte - compreso il suo titolo - di questa opera e/o la medesima nella sua interezza può essere riprodotta e/od archiviata (anche su sistemi elettronici) per scopi privati e/o riprodotta e/od archiviata per il pubblico senza il preventivo ottenimento, in ciascun caso, dell’espresso consenso scritto dell’autore.


[1] Evidentemente si tratta di convenzione, poiché ormai tutte quelle registrazioni sono da lustri nella disponibilità dell’artista, che le licenzia come meglio crede.
Cosi i fan sognano che allo scadere della licenza di EMI possano finalmente essere pubblicati inediti leggendari (che nemmeno compaiono su bootleg), riprese audiovisive che continuano ad affaticare gli occhi in edizioni più o meno soddisfacenti, eccetera.
[2] L’ascolto non basta di certo.
[3] È la solita storia: le poche pagine a mo’ di scrapbook del giovane Morrissey dedicate alle New York Dolls o a James Dean reggono il confronto con i due volumi dedicati da Peter Guralnick a Elvis Presley.
[4] Un mio cruccio è l’impossibilità di entrare, letteralmente, nel mondo racchiuso nella immagine di copertina di  The Rise and Fall … ovvero davanti al 21-23 di Heddon Street (London, W1) nel 1972.
[5] Non era la sua prima visita stateside, ma in qualche modo fu forse il suo primo viaggio in cui poteva cercare di confrontarsi con questo continente.
[6] Ma si cerchi (su Internet, volendo) anche l’intervista reciproca con William Burroughs: “Beat Godfather Meets Glitter Mainman”, pubblicata in Rolling Stone, numero del 28 febbraio 1974. Intervista svoltasi a Londra nel precedente novembre.
[7] Alla musica italiana sé-dicente quasi sempre manca l’ingrediente “genocidio”.
[8] Il giorno in cui non la si condivide più si è vecchi.


venerdì 24 febbraio 2012

PRE-198X IN ACTION

PRE-198X IN ACTION



Mi pare che l’interesse per i 198X sia notevole, dato che il post dedicatogli è spesso visitato.


Per il disco, io non posso nulla, ma un’immagine rara con due terzi dei futuri 198X posso offrirvela: ignoto il fotografo, da sinistra a destra Tiberio, Tonito e Franco.

Nonostante la sgranatura, mi si dice che il badge di Tonito è di David Bowie; notate anche la t-shirt di Franco che consiste in una foto che ritrae Patti Smith ma che evidenzia la scritta sul muro alle sue spalle: “vive l’anarchie” ([1]).


                                                                                                          Steg



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[1] Chi fosse entrato nel blog e avesse letto questo post alcuni giorni fa avrà trovato la foto come “dichiarata” 198X: il fatto è che era stata archiviata per comodità da chi me la ha gentilmente inviata come tale.
E sino al 6 marzo 2012 la maglietta era identificata come “hand made”.
Entrambe le precisazioni arrivano da Tiberio, grazie.


giovedì 23 febbraio 2012

L’ALBUM PIÙ SOTTOVALUTATO DI DAVID BOWIE? (The Man Who Sold The World)




L’ALBUM PIÙ SOTTOVALUTATO DI DAVID BOWIE?
  (The Man Who Sold The World) 

La maggioranza dei non-bowiani conosce solo la title track nell’interpretazione dei Nirvana di questo LP cruciale nell’evoluzione, infinita, di David Bowie verso lo status di stella eterna.
Non si tratta di dislivello generazionale, semmai di più facile disponibilità della registrazione.
E sto già scrivendo di minoranze. Perché fra i non-bowiani c’è la massa indistinta.



Descritto come fosse una sorta di incidente, quasi da disconoscere fra stupori e giudizi netti (“è hard rock” eppure me lo diede Tonito questo giudizio! In altri casi era gelosia di chi non era riuscito nemmeno (sic) a creare un album apparentemente fasciato di mera potenza sonora?), forse si vuole proporre l’artista entro uno scrigno che fosse RCA sostanzialmente e non solo formalmente?
Poi certamente, quella copertina (mi riferisco all’edizione Mercury con la cosiddetta “dress cover”) non prometteva nulla di buono – anch’essa un equivoco? – con un Bowie apparentemente lontanissimo dal suo personaggio di Ziggy Stardust ([1]).



Non ha senso raccontarvi le canzoni. E non è nello stile di questo blog ([2]), poi.
Eppure la tentazione pare forte.



La banale verità è che David Bowie nel 1971 esprime già la potenza intellettuale (se pensavate solo musicale la vostra analisi è superficiale) di un vero Übermensch che avrebbe lasciato un’eredità pesante anche se avesse abbandonato per noia il medium ([3]) del pentagramma nel 1974-75 come dichiarò di voler fare.



Mi rendo conto del fatto che quando scrivo di lui in effetti fatico a concepire un lettore neofita nella conoscenza del repertorio (che brutta parola) di David Bowie.
Ma come posso imporre, sì imporre, l’ascolto io – che soltanto intravedo fra cappe crowleiane, ritagli burroughsiani, visioni nietzschiane, materiali da epica astronautica, suoni elettrici dei quali è più che artefice Mick Ronson, i lampi superomistici ([4]) di chi poi risorgerà come Duca Bianco già nel 1975 – almeno di tutto ciò che ha pubblicato con devozione Rykodisc e della parzialissima antologia ufficiale delle sessioni radiofoniche BBC?



Come spesso accade, e deve accadere, la chiusura resta una sola: ascoltate e giudicate.
Quando durante la giornata, improvvisamente, sentirete la mancanza di “The Width Of A Circle” oppure essa vi parrà troppo breve nella sua dimensione di mantra elitario, allora avrete nel vostro scrigno musicale un altro gioiello.





                                                                                                                      Steg







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[1] In realtà così non è: per tutti si cfr. M. PAYTRESS, Ziggy Stardust/David Bowie, Schirmer, 2001 (collana “Classic Rock”).
[2] Ma non trovate delle vicinanze melodiche con gli Earth and Fire dell’anno successivo?
[3] Sempre ci si deve porre la distinzione fra artista costretto ad una sola arte e invece colui che percorre le varie forme delle opere dell’ingegno come mere espressioni e mezzi di un talento geniale ben più grande.
[4] O oltreomistici che dir si voglia.

martedì 21 febbraio 2012

THE WHO? WELL PETE TOWNSHEND (qualche considerazione più o meno contingente)

THE WHO? WELL PETE TOWNSHEND
(qualche considerazione più o meno contingente)

Fatico a ipotizzare un’interpretazione spensierata di The Who ([1]).
Credo che dipenda dalla prospettiva, inevitabilmente storicizzata, di soggetto scrivente e oggetto di queste considerazioni.
Ma siccome con il passare del tempo non può migliorare la situazione, mi pare che l’analisi qui proposta sia sufficientemente obiettiva, pur se massimamente frammentaria.


Il tenore delle riflessioni non deriva neanche tanto dal fatto che con due morti al passivo si fatica a pensare ancora in termini di band.

Si rammenti che Pete Townshend quando recentemente ha dichiarato che il suo più grande errore è stato entrare in un gruppo non intendeva certo fare una boutade alla Liam Gallagher.
D’altra parte un tour del solo Roger Daltrey nel 2012 incentrato su Tommy (e altro) si risolve in un interprete, lui, di altro autore-compositore (ancora Townshend).


The Who sono sempre stati il loro chitarrista, innanzitutto; il quale al di là della sua passata (e forse invidiata) deflagrante giovinezza – gli siamo grati (forse lo fu anche Jimi Hendrix) per le innumerevoli Rickenbaker distrutte e i Marshall sfondati – è un cervello (art school o meno) che non si ferma mai (chiedere a David Bowie: due canzoni di The Who in Pin Ups) ed ha scritto splendide pagine dove il formale buon umore in realtà si fonde con la rabbia ([2]).

Da parte mia, poi, ho sempre Peter Meaden nella mente. Ovvero fashion is a pashion.

Dunque non c’è niente di facile nel commentare un animo per lo meno torturato.
“Pulito” e “difficili”: le due chiavi di lettura meadeniane restano inevitabili anche oltre la sintesi del modism.



“Substitute”: la modernità di questa canzone (tale nella sola forma; una serie di aforismi, nella sostanza) è impressionante.
Potrei semplicemente declinare il suo titolo e molti argomenti di cui tratto in questa sede blog senza approfondirli.


“The Seeker”: ne ho già scritto.


Ecco che scrivo del gruppo che in realtà solo raffina un’opera individuale, come del resto dimostra il fallimento Quadrophenia ove si tenti di frazionare a misura di componente l’opus complessivo.


Pete “Captain Achab” Townshend anche oggi (e forse oggi a maggior ragione) non è certo una figura rassicurante in termini intellettuali, almeno di primo acchito.
Ma in seguito ... ([3]).


Basta leggere ciò di cui scrive Townshend: solo impari lotte mai abbandonate.
Ma egli è un combattente (non un ottimista: quelli Moby Dick nemmeno li considera, solo li distrugge – manca il loro search perché essi sono un modesto incidente per il leviatano che è la vita di ciascuno).


A pretesa conclusione: non termino mai un ascolto di The Who con un senso di soddisfazione, bensì un senso di condivisione delle eterne insoddisfazioni esistenziali con – nel rispetto di Moon (“a band is only as good as its drummer”), Entwhistle e Daltrey (in ordine di mia “crucialità” per il gruppo) – un artista immenso.

Sono tranquillo: Townshend mi copre le spalle, anche se il finale per tutti è, nel migliore dei casi, quello di Butch Cassidy e The Sundance Kid (ma anche finire parlando con un cavallo forse è meglio di tante altre chiusure).


                                                                                                                      Steg



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[1] Il numero di incisi in parentesi nel post è dato prevalentemente dal mio stile, però indubbiamente gli incisi sono provocati anche dall’argomento.
[2] Nemmeno la sua prova di autore di racconti è trascurabile: Horse’s Neck (per i più avventurosi, o meno avvezzi all’Inglese, tentare di reperire la traduzione italiana: Fish & Chips e altri racconti, Minimum Fax, può essere divertente, fra l’altro in costa del volume il titolo non è identico).
[3] Non che essere David Bowie sia più semplice – le sue accelerazioni poi (!), fra Poe e Lovercraft, finito il retrogusto burroughsiano (pur se “The Bewlay Brothers” non dissiperà le sue ambiguità …) – come autore anche se sempre mascherato da personaggio.

mercoledì 15 febbraio 2012

“STORM THE MEMORY PALACE” (talkin’ ‘bout The Associates, somehow)




“STORM THE MEMORY PALACE” ([1])
(talkin’ ‘bout The Associates, somehow)




Un mio amico, FV, potrebbe scrivere de The Associates e di Billy MacKenzie ([2]) – la metà più evidente del duo, l’altra è Alan Rankine – molto meglio di me. Ma lui è un artista musicale. Lui li ascoltava “mentre c’erano”, io invece leggevo che “c’erano”.
Leggevo che c’erano, preoccupandomi piuttosto (nella tarda primavera 1982) delle corde vocali di Siouxsie ([3]).




Quindi per mettere a ferro e fuoco il Palazzo del Ricordo dopo quindici anni dal suicidio di Billy MacKenzie ([4]) sarò meno preciso del solito per – non è un ossimoro nel mio caso – un difetto di emotività generazionale.


Rispetto a The Associates tutto è poco chiaro e lineare, tutto.
Per i dati storici potete partire da una ricerca su Internet, anche perché qui siamo nel culto puro e pertanto troverete poco ma di regola esatto, e per un approfondimento sbilanciato – come tutto lo è in questa storia sul frontman e anche titolare del nome d’arte, Billy MacKenzie – potete far riferimento al libro di Tom Doyle, The Glamour Chase: The Maverick Life of Billy MacKenzie ([5]).


Ma quando vi metterete a cercare la loro musica la confusione diviene sovrana ([6]), il fuori catalogo o quasi è la regola, la possibilità di due edizioni dello stesso fonogramma non è un unicum.
Un punto di partenza: l’eccellente antologia doppia che uscì ormai anni fa dal titolo Double Hipness.


Il fatto è che The Associates nella formazione originale – qualitativamente la migliore seppure la voce del cantante resterà sempre notevolissima e Rankine, meritoriamente, dopo il suicidio del suo ex sodale sarà fra coloro che cercheranno di preservare l’intero patrimonio musicale esistente sotto forma di registrazioni indipendentemente dai line-up – soffrono un poco della “sindrome del duo” (pur se la coppia talvolta è un punto d’arrivo, in altri di partenza): considero Suicide, Soft Cell, D.A.F.
Ci si trova, cioè di fronte a una produzione disomogenea, in alcuni casi altamente eterogenea, con un contrasto fra opere musicali più commerciali (o meno “drastiche” ([7])) e composizioni più intransigenti.
Ecco allora che mentre è sempre un poco rischioso consigliare delle raccolte (non intendo qui alimentare la sterile discussione fra artisti “da singolo” e artisti “da album”; di altrettanto inutile c’è quella della prevalenza o meno del romanzo sul racconto in termini qualitativi) ci si può chiedere se possa per tutti avere un senso citare il formato album ([8]).


Se credete che The Associates fossero post-punk (per molti sembra un dato acquisito, non comprendo l’utilità del dato ([9])) optate per l’esordio con The Affectionate Punch, altrimenti cercate il terzo, Sulk. Però vi perdete ciò che è compreso fra i due.
Quando si fa presente che del primo album esistono due versioni diverse e la prima ha due versioni in CD, credo capirete la confusione.


Cercando di chiarire un po’: Billie MacKenzie ha una voce straordinaria ed è un divo (la baruffa a colpi di canzoni fra lui e Morrissey esemplifica un poco le cose) – anzi una “diva” dichiara l’amica Siouxsie ([10]) in un documentario (televisivo?) che trovate purtroppo solo sul web ([11]), ma senza Alan Rankine non ci sarebbe forse stato molto.


Dai nomi di coppie artistiche elencati prima, è chiaro che non dovete aspettarvi chitarre e assoli di batteria entro il nucleo della produzione fonografica della formazione storica.
Sostanzialmente sparita metà del duo (un pugno di registrazioni, davvero), MacKenzie in vita ha realizzato molto in studio, anche senza utilizzare “The Associates” come marchio. Un discreto numero di fonogrammi è stato pubblicato solamente postumo.


A mo’ di conclusione, quindi, cercate solamente le edizioni più recenti perché più curate, spesso caratterizzate da bonus track e auspicabilmente anche più facili ed economiche da reperirsi.
Peccato che non esista materiale video disponibile commercialmente, pur se nella Rete i più tecnicamente dotati troveranno sicuramente filmati di vario genere.



                                                                                              Steg


 

 

 

POST SCRIPTUM

Ovviamente la conclusione risente dei nove anni trascorsi.

Nel frattempo, sono state pubblicate altre raccolte, una edizione monumentale di Sulk nel 2022, mentre il 2023 si apre con la notizia della morte di Alan Rankine.

Time will tell.

                                                                                               Steg

 





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[1] È il titolo di una canzone da solista di Billy Mackenzie. O meglio no, è che per me ha sempre suonato “storm”, in realtà è “Stone The Memory Palace”.
[2] Nato William MacArthur,il 27 marzo 1957.
[3] Perché quanto a Siouxsie and the Banshees avremmo potuto restare soli con il singolo “Fireworks”, una splendida Kid Jensen Session e poco altro.
[4] Queste righe sono casualmente nate in questo periodo, ho rivisto il testo del post all’inizio di settembre 2013.
Egli morì il 22 gennaio 1997.
[5] Ritengo che la chiusura della recensione di Julie D (Lancashire) riassuma bene la situazione: “I cannot, cannot give this book less than a five star review. I can't do it for fear that some casual browser of Amazon one day be deterred from finding out more about Billy MacKenzie, his music and THAT voice. He still resonates loud and clear. The essence of the man lives on in his fans, I guess. One day a most fantastic book will be written about a man as difficult to pin down as a mountain stream. Until then, 'The Glamour Chase' will have to do.”.
Sappiate che nemmeno è chiaro quali siano le novità, prefazione a parte, fra l’edizione del 2011 e la prima del 1998 (e vorrei evitare di trovarmi con tre copie con testo uguale).
[6] Non a caso questo post trae il nome anche da un album non solo postumo, ma accreditato a Paul Haigh e MacKenzie: Memory Palace.
È vero che circola un CD dal titolo Demos che ne contiene una versione ulteriore, ma siamo già nella fascia collezionistica dei bootleg in formato CDR e sapere a quando risale pare arduo.
[7] Curiosamente per i Suicide non vedo sempre una maggior orecchiabilità in canzoni dall’impianto più tradizionale.
[8] Salvo poi l’altro dilemma poco producente fra: meglio il formato LP o quello CD. Rispondo: l’esordio dei Ramones e qualche disco di Todd Rundgren dimostrano l’eclettismo anche nelle durate sul supporto in vinile (non doppio). Fine.
[9] Motivo l’affermazione considerando l’eterogeneità di un termine che semplicemente caratterizza un’epoca piuttosto che un suono: considerate la trattazione di Simon REYNOLDS in Rip It Up and Start Again – Postpunk 1978-1984 e le sue discografie (talmente estese che le pubblicò sul sito Internet dell’editore e poi sul proprio).
A tacer del fatto che manca del tutto qualsiasi denominatore, anche se banalizzato, in termini di immagine e stile nell’abbigliamento.
[10] “Stay” di The Creatures gli è dedicata.
[11] http://dangerousminds.net/comments/the_glamour_chase_documentary_beauty_despair_singer_billy_mackenzie. Oppure: http://youtu.be/tnSi2MNYYRA.
Come vedete, con lo stesso titolo trovate un album, un libro e un audio video.

domenica 12 febbraio 2012

“SCADUTI I DIRITTI” E TRADUZIONI (ancora a proposito di letteratura)

“SCADUTI I DIRITTI” E TRADUZIONI
(ancora a proposito di letteratura)

Cercano di venderti le stesse cose, a prezzi poco ragionevoli e poi gonfiati ancora anche nell’usato.
Incredibile questa minestra riscaldata – come iniziativa editoriale, sia chiaro – dei romanzi di George Simenon dedicati a Maigret, come si ti facessero un piacere.
Si badi: nemmeno si sa per quale motivo debba essere meglio la traduzione di Adelphi, piuttosto di quella di Mondadori vecchia di 50 anni, ma lasciamo perdere.

Però quando si vende un autore italiano “caduto in pubblico dominio”, allora davvero mi chiedo se in certi uffici di certi editori pensano che i lettori (o potenziali tali) siano poco più che dei cretini, tutti o quasi.
Trascorsi 70 anni dalla morte di un autore ([1]) le sue opere sono disponibili per tutti.
Quindi se mi vendi Alessandro Manzoni o Giacomo Leopardi devi rendere l’edizione (il “prodotto”) appetibile, altrimenti me lo cerco gratis su Internet, chiaro?
Ovviamente per chi legge in lingua straniera l’approccio è analogo ([2]).

Morale: gentili editori (inclusi quelli di periodici e quotidiani con i loro “abbinamenti” editoriali incessanti; non solo di libri, come noto), spiegateci perché dovremmo “pagare per il pubblico dominio”.
Cioè abbiate la decenza di spiegarci cosa state vendendo ([3]), con che apparati critici, eccetera, che giustificano il prezzo.

Siccome nessuno è innocente, anche chi compra senza discernimento ciò che è in pubblico dominio in formato kindle/e-book, esistendo le opere in siti Internet, o è disinformato o è molto poco attento.

Quando comprate Pinocchio o Il giornalino di Giamburrasca dovete comprare un’edizione che vi soddisfi ([4]).

Qualche parola sulle traduzioni però va ancora spesa.
Se traduco male un autore caduto in pubblico dominio, i suoi eredi potrebbero avere nei miei confronti dei diritti morali: quelli non cadono in pubblico dominio.
Se traduco bene, lo sanno quelli che leggono quella traduzione ([5]).
Allora ricordo un editore che fu anche un grande traduttore e che con la sua passione del mare – come ricordava Mino Milani in un bell’articolo pubblicato nel gennaio 2012 – ha “portato” Salgari integrale ai ragazzi (anche dicendo loro che Salgari si era suicidato) e ha realizzato con bravissimi studiosi ottime edizioni di Joseph Conrad: Ugo Mursia.


                                                                                                                      Steg
Frontespizio. Pubblicato nel 1983



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[1] Non mi avventuro in casi più complicati per chi non è esperto del diritto d’autore (che non è proprio lo stesso del copyright), io reputo di esserlo abbastanza.
Quindi tralascio i casi di opere derivate, di opere scritte da due o più autori, eccetera.
La regola data è quella più semplice.
Nemmeno considerate questo (o altri post) come pareri legali.
[2] Ma variando in parte le normative e mancando armonizzazione totale su scala internazionale - non c’è WIPO che tenga -, se cercate sui siti canadesi potreste trovare Antoine de Saint-Exupery gratis.
[3] Per esempio per Emilio Salgari possono esserci interessanti varianti di edizione; chi legge in Francese potrebbe discutere fra edizioni integrali e non di romanzi di Fantomas. Forse adesso capite perché di Le Diable au corp di Raymond Radriguet trovate tre o quattro traduzioni in libreria: morto giovanissimo, caduto presto in pubblico dominio (i termini di protezione continuano ad allungarsi).
Peter Pan di James M. Barrie fa eccezione, ma questa più che un’altra storia è una piccola favola dentro un mondo di avventure.
[4] Teoricamente anche le illustrazioni cadono in pubblico dominio, ma difficilmente troverete anche quelle su Internet.
[5] Riconosco come alcuni mesi fa qualcuno abbia osato contestare certe traduzioni di Fernanda Pivano di Francis Scott Fitzgerald proprio perché grazie al pubblico dominio sono state approntate nuove traduzioni. Eh sì, perché la tutela dell’autore crea anche un monopolio di traduzione salvo che l’editore originale cambi il sub-editore straniero.