MORRISSEY
NON È MORTO
(ed è,
per fortuna, scorretto)
Traggo spunto
per queste riflessioni, positive, dalla notizia - negativa - del 16 marzo 2013
per cui Morrissey a causa di serie, ulteriori, ragioni di salute ha cancellato
il resto dei suoi concerti “americani”.
Una
preoccupazione mi affligge, pur non attanagliandomi: in Italia quanti di quelli
che seguono Morrissey lo abbandonano per l’artista ottimista di turno (magari
anche nazionale) allorché la vita sorride loro almeno un po’?
Peggio che i
parlamentari del M5S che votano per candidati del PD.
Uno dei dati più
importanti – ma spesso ignorato – riguardante Morrissey è che egli non è
politicamente o socialmente corretto.
Basta scorrere i
titoli delle sue canzoni.
Linked In ti
dice che devi complimentarti quando qualcuno cambia lavoro. Come conciliare ciò
con “We Hate When Our
Friends Are Successful”?
Tutti i –
numerosi – modesti figuri che ti augurano meccanicamente e acriticamente “buon
week-end” come si conciliano con “Every Day Is Like Sunday”?
Che dire, poi,
degli ipocriti che cercano di convincersi, prima di convincere te, che una
persona brutta, in realtà è sempre (!) bella e preziosa, di fronte a “November
Spawned A Monster”?
Figuriamoci un
handicappato fisico o mentale.
Sarebbe bello se
Morrissey dedicasse un poco del suo tempo libero così incidentalmente acquisito
per ultimare i dettagli della sua autobiografia, già conclusa da due anni e
oltre le 660 pagine.
Non voglio
grandi fatti - ma vorrei tante righe su di lui e Linder Sterling - bensì un suo
punto di vista sull’ultimo mezzo secolo e su almeno alcuni dei suoi riferimenti
intellettuali.
Con tanta
ingratitudine e molti fusées
baudelairiani di intelligenza.
Che egli pubblichi
con Penguin o con Faber & Faber non importa.
“Everyone
lies/Nobody minds” ([1]).
Appunto.
Steg
©
2013 Steg, Milano, Italia.
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consenso scritto dell’autore.
[1] “Glamorous Glue” sempre
dalla sua penna autoriale.
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