JOY
DIVISION: CONSIDERAZIONI IMPOPOLARI
Premessa 1: la “o”
a Manchester si pronuncia quasi come una “u”.
A Manchester dopo
la fine della seconda guerra mondiale le macerie hanno impiegato più tempo a
svanire ([1]).
Premessa 2: ho
venduto qualche vinile (singoli, mi pare) dei Joy Division, saranno passati
25-30 anni da quel gesto.
Ho rimediato, ma
non ce ne era in realtà bisogno perché i fondamentali restavano.
Premessa 3:
queste righe non credo siano, nemmeno accidentalmente, legate a qualche
ricorrenza.
Di ciò mi
rallegro, se mi sbaglio significa che non sono cosi esperto della materia, ma
nemmeno di parte.
Credo che molti
di coloro che hanno scritto o parlato a proposito dei Joy Division dovrebbero
vergognarsene.
Incluso Peter
Hook; il quale continua a ridacchiare come il demente del paese (che non è),
perché ha sulla spalla un King Kong da 100 tonnellate che si chiama la salma di
Ian Curtis, di cui non riesce a sbarazzarsi e che non lo lascia dormire.
Mi risulta
davvero squallido questo girare come avvoltoi su quel solo cadavere assurto a
notorietà.
Ché invece gli
altri tre morti rilevanti nella piece
della vita di questi artisti: Martin Hannett e Robert Gretton e Tony Wilson,
permangono vittime (dunque doppie vittime) di un trattamento poco più che da
comparse.
Ian Curtis spesso
si vestiva da schifo: le scarpe grigie e la camicia di un rosa sintetico che
vedete nella loro apparizione al programma televisivo “So It Goes” del 1978 ([2])
lo testimoniano.
Ma invece per
tutti la band è un punto di
riferimento anche in termini di dress in
grey coolness ([3]).
Un grande
fotografo, Kevin Cummins, dichiara che un suo scatto (quello sul ponte) è il
più famoso, ma non è vero, perché quello di Anton Corbijn che ritrae il gruppo
in un tunnel londinese ([4]) lo sorpassa di ben
più che un’incollatura.
Appare curioso
come artisti (o artista? Quanto contano nella realtà i crediti collettivi delle
loro canzoni?) di valore sostanziale indiscutibile siano intrappolati in
equivoci davvero di poca cosa.
Ian Curtis è un
tristo ometto che tradisce la moglie Deborah. La moglie cui si deve uno dei
libri ancora oggi considerati fra quelli degni di essere letti.
Ovviamente gli
altri del gruppo disprezzano la amante.
In questo
panorama di meschinità umane ([5]), il valore delle
opere dell’ingegno musicale offerte al pubblico è indubbiamente grande.
Nel
film-documentario dal titolo realmente immaginifico Joy Division, la figura di Genesis P. Orridge (già verso una
identità femminile) si staglia come onesta e davvero caritatevole,
probabilmente in ciò unica, nella propria memoria di Ian Curtis.
Ascoltate la
musica, e poi doletevi della relativa pochezza di tutto il resto, probabilmente
incluso un libro di Paul Morley ([6]).
Certo, leggetevi
William S. Burroughs e James J. Ballard ([7]): ma questo anche se
i Joy Division non rientrano nei vostri gusti.
Indi tornate
alla musica e, voi giovani tecnologici, magari anche a qualche immagine in
movimento tratta dal pozzo mediatico You Tube.
Non potevo
scrivere in modo diverso queste righe, dati i miei limiti (indipendentemente dal
“volere” e dal “potere” del loro autore, appunto).
Steg
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sistemi elettronici) per scopi privati e/o riprodotta e/od archiviata per il
pubblico senza il preventivo ottenimento, in ciascun caso, dell’espresso
consenso scritto dell’autore.
[1] Per il resto
potete, anche, attingere a qualche altro mio post per conoscere le mie opinioni su temi adiacenti.
[2] “Shadowplay” forse
è la loro canzone che preferisco.
[3] Con discreta contraddizione
ideologica per molti dei loro appassionati: è ormai noto che la fascinazione
per certa grafica nazista e una esigenza (anche) economica dirigevano i
componenti a comprare capi d’abbigliamento di matrice army surplus.
[4] Diverse le
interpretazioni sul luogo esatto della sessione, quasi certamente una stazione
di metropolitana.
[5] Ed allora –
opinione che sottolineo, ultroneamente, come personale – assoluto plauso alla
linea stalinista bansheeiana che esclude ogni riverbero sull’immagine pubblica
delle pochezze e debolezze individuali.
Certo è sottile la linea
che divide la costruzione hollywoodiana e la verità alienata. Linea che
comunque filtra e trattiene quelle che sono, appunto, debolezze: Umano, troppo umano forse?
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