I MOTT THE HOOPLE
(a crash course for the young ravers
or educating the Mondeo people in the South?) ([1])
In Italia i Mott The Hoople sono solo una splendida canzone scritta da David Bowie (“All The Young Dudes”), per chi non fosse attento ripeto splendida.
Cioè i Mott The Hoople non esistono, come non esiste Rod Stewart con le Faces.
Un fenomeno esclusivamente britannico ([2]).
O così pare. Dipende.
Il mio perennemente ciclico (mantra o “famiglia scheletrica”?) soffermarmi sulle influenze mi conduce altrove.
Nella illusa speranza di un mio lettore di meno di 25 anni, dico The Clash.
E lo dico perché possa essere meno amaro ascoltare non una bensì due band senza – anche – il gusto del presente (contingente?) che è come l’odore di benzina e pneumatici e il rombo degli scappamenti se si è vicini ai box di una gara motoristica.
Non è facile scrivere avulsi dalla società albionica dei Mott The Hoople, i quali nessuno può apprezzare “indipendentemente da”, cioè solamente incuriosito da un fonogramma in un negozio, fisico o virtuale, oppure nel catalogo senza volto – cioè privo di quella copertina un poco “a la Brideshead ” – di un sito internet da cui scaricare.
E per quel lettore ideale che di anni ne ha meno di 20 eppure legge: già, alla fine si arriva per forza ai Velvet (Underground); lettore e ascoltatore prosegui fino ai Voidoids ([3]) e oltre e non te ne pentirai.
È sempre un gioco di sponde (“Pinball Wizard”? ([4])).
Dimenticavo: siccome quando si è giovani si ha la forza della ingratitudine e della contraddizione capita che “Hymn For The Dudes” dichiari “Go tell T. Rex that their hair is turning grey” ([5]).
Phew!
Steg
© 2011 Steg, Milano, Italia.
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[1] È evidente la indulgenza didattica di questo “post”, derivato dal precedente.
Le due citazioni modificate derivano rispettivamente da David Bowie (“Drive In Saturday”) e da Nicky Wire.
[2] Robert Elms, The Way We Wore.
[3] Cfr. Clinton Heylin.
[4] Vedi Nik Cohn.
[5] Di Verden Allen e Ian Hunter.
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