"Champagne for my real friends. Real pain for my sham friends" (used as early as 1860 in the book The Perfect Gentleman. Famously used by painter Francis Bacon)



venerdì 27 gennaio 2012

“TORINO È LA MIA CITTÀ”/SCHIAVI NELLA CITTÀ PIÙ LIBERA DEL MONDO (Note sul punk in Italia – 2)


Booklet dell'antologia in formato CD dei ROUGH
completo di adesivo di cellophanatura


Il quadra-split felsineo 

“TORINO È LA MIA CITTÀ”/
SCHIAVI NELLA CITTÀ PIÙ LIBERA DEL MONDO ([1])
(Note sul punk in Italia – 2)

Il cantato arriva dopo 60 secondi. Certi giri di chitarra sono Clash-derived.
L’antemica “canzone della strada” dei Rough resiste alle piogge acide dei lustri che scorrono ([2]).
È la Savoia Skin: filubustieri immolati contro le palle di piombo sparate dal bronzo nemico, quello che uccide ogni sogno giovane ([3]).

Non va meglio molte decine di miglia (marine o terrestri fa poca differenza) più a sud: 8 canzoni 8 per 4 bande dimenticate: Anna Falkss, Bacteria, R.A.F. Punk, Stalag 17 ([4]).

In entrambi i casi la città è nemica, la città che poi è il mondo.
Si va a London perché ci si sente alieni dove si è nati.

Questi sono i veri punk italiani della seconda o della terza onda ([5]).

La regola punk è non essere mai come quelli che ti hanno preceduto. Ecco perché tutto ciò che è già stato non è punk.

Chi non è della mia opinione torni ai blog sovvenzionati dalla pubblica amministrazione, per favore. Io ero stanco delle imitazioni e del tentativo di “correggere verso il corretto” già nel 1979, come è noto.

La lotta unita non s’è vista mai” (Rough: “N’Oi!”).


                                                                                                                Steg



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Tutti i diritti riservati/All rights reserved. Nessuna parte di questa opera – compreso il suo titolo –  e/o la medesima nella sua interezza può essere riprodotta e/od archiviata (anche su sistemi elettronici) per scopi privati e/o riprodotta e/od archiviata per il pubblico senza il preventivo ottenimento, in ciascun caso, dell’espresso consenso scritto dell’autore.


[1] Rispettivamente, titolo della canzone più famosa dei Rough e titolo di un very EP “molto” autoprodotto di 4 gruppi bolognesi.
[2] La compilation in formato CD intitolata Indelebile è fondamentale.
[3] Non giovanile.
[4] In ordine di apparizione vinilica.
[5] Eccetto forse i R.A.F. Punk,che abbracciano subito la linea Crass: neo-hippy travestiti (eppure … Caccia urbana era un fanzine particolare).

JIMI HENDRIX (Forse tradito da chi lo ha limitato alla chitarra?)


JIMI HENDRIX
(Forse tradito da chi lo ha limitato alla chitarra?)

Volendo complicarsi la vita, in ambito musicale ci sono una mezza dozzina di artisti a proposito dei quali scrivere.
Se poi (come me) non si è musicista, si aggiunge un fattore di ulteriore difficoltà scrivendo di un virtuoso dello strumento, secondo il luogo comune.
Ecco, allora Jimi – James Marshall (nato Johnny Allen) – Hendrix di Seattle.

Innanzitutto vederlo suonare con una Gibson – white body – “diavoletto” che smorza il suo mancinismo data la simmetria dei capotasti è interessante: siamo al Dick Cavett Show nel 1969 ([1]).

Allora, chi si occupa di Hendrix come chitarrista non ha capito molto.
Basta considerare l’album di esordio: una canzone come “Third Stone From The Sun” è un indice sicuro.

Mano nella mano con la sua fidanzata bianca e una raffica di pallottole che gli perfora la lamiera dell’auto. Ovvero “devi sceglierti dei musicisti di colore”.

Stiamo parlando di persone che raggiungono la immortalità in meno di un lustro. Altro che cari agli dei, questi sfidano gli dei.

Dunque reputo Hendrix un autore trascurato, mentre i suoi testi sono davvero superbi.

Certo anche come arrangiatore non è un tipo banale: “Are You Experienced?” non è calligrafia psichedelica.

Ma in questo giovane, non più ragazzino secondo i canoni di quasi mezzo secolo fa, già militare in una divisione aviotrasportata, vedo sempre un sorriso smorzato da un’ombra.

Guascone dunque, però senza rivali: alla chitarra non c’è sforzo e neanche esibizione di potenza; in questo è la sua superiorità verso tutti, priva di cattiveria, perché davvero senza sforzo con queste Fender da destri che all’apparenza gli danno un coefficiente di goffaggine può fare quel che vuole, strapazzandole con i denti e distruggendole con liquido per Ronson (o Zippo).
Così li distrae, i suoi rivali.

Comunque si sarebbero accorti prima o poi che “Manic Depression” è roba da punk (quelli che si sarebbero pochi anni dopo automutilati oppure bruciati le cellule cerebrali con la colla inalata)? Dubito.

Basta dietrologie buone solo per programmi televisivi da poco (ben più divertente è apprendere di Jimi Hendrix e Patty Pravo su una Fiat 500 in giro per Roma, destinazione Piper).
Orecchie attente e possibilmente una comprensione delle sue liriche – comparate ciò che il mercato offre, non necessariamente il più recente catalogo è il migliore – restituiscono l’artista intero, con pretese più ambiziose (gli Electric Ladyland Studios) e chissà quali altri sogni, senza dimenticare qualche retrogusto britannico.

Doveva esserci un album di Hendrix con Miles Davis. E uno di Miles Davis con Prince. Niente di tutto ciò.
Pensate ad un album di tutti e tre insieme o anche a tre album in “coesistenza”.

Il nero con gocce di sangue pellerossa (Cherokee), tenebroso a tutti i costi diventa un cliché, dunque, e la chitarra il ghetto musicale che lo ha al tempo stesso glorificato, ma cosi facendo anche tarpato.


                                                                                                                Steg



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[1] Dick Cavett è un notevole mod ed è statunitense.
Il palmares dei suoi ospiti potrebbe risultare anche fastidioso, per me le tre apparizioni di Janis Joplin, quella di David Bowie fra i cani di diamante e i giovani americani, e quella negletta di Sly Stone sono degli obbligatori.

mercoledì 25 gennaio 2012

DINO BUZZATI: riflessioni su troppe celebrazioni e commemorazioni


Dedica a una copia della prima edizione de Le notti difficili,
ultimo libro pubblicato vivente Dino Buzzati





DINO BUZZATI: riflessioni su troppe celebrazioni e commemorazioni


 


Dino Buzzati, morto il 28 gennaio 1972, quindi fra tre giorni saranno quarant’anni, è commemorato con la riproposizione di un volume che ha una buffa caratteristica: una delicatissima sovraccoperta che rende l’edizione più nota, la seconda, un poco sfortunata per i bibliofili. Certo il contenuto conta, ma anche l’apparenza …
Parlo de I miracoli di Val Morel (Milano,Garzanti, 1971), già uscito l’anno precedente come Miracoli inediti di una santa (Milano, Edizioni del Naviglio) in una versione più ridotta (sorta di catalogo di mostra).

 

Di questo autore, che apprezzo molto, recentemente (2006) si celebrò il centenario della nascita.
Un altro scrittore che rischia di soccombere sotto celebrazioni e commemorazioni (spesso dimenticate in breve tempo) è Emilio Salgari: lo scorso anno era il centenario della morte, quest’anno il cento cinquantenario della nascita.

 

La mia proposta, modesta, è quella di tenere i libri in catalogo più di quanto si faccia oggi.
Una volta nel decalogo dei librai c’era la regola di avere sempre due copie per ogni libro importante. Oggi sembra che i venditori di molti simil-libri e sempre meno libri si facciano un punto d’orgoglio nell’assecondare la scelta dettata dalle logiche (?) commerciali degli editori di mettere fuori catalogo al più presto ([1]).
Difficile, senza poterlo leggere, apprezzare uno scrittore ([2]).

 

 

POST SCRIPTUM DICEMBRE 2013

Quando un pomeriggio del 1963, inclinante alla sera, Dino Buzzati presentò alla libreria internazionale Einaudi in galleria Manzoni a Milano il suo nuovo romanzo Un amore pubblicato da Mondadori, una signora azzardò una domanda che poteva suonare come una protesta per un tradimento subìto: «Come ha potuto lei che ha scritto un romanzo come Il deserto dei Tartari scriverne uno come Un amore?» La signora appariva, più che emozionata per la propria audacia, addolorata per la sorte dello scrittore evidentemente amato. Ma Dino Buzzati non batté ciglio, raccolse candidamente la sfida dichiarando: «Perché io sono un verme»” ([3]).

Ovviamente, siamo alle provocazioni: di Buzzati, Del Buono e, da ultimo, mie.

 

 

                                                                                                                      Steg

 

 

 

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[1] Capirò mai perché anche certi editori piccoli eliminino dal catalogo un titolo per poi riproporlo poco dopo quasi soltanto “ricopertinando” il medesimo?
Davvero certi libri poco commerciali lo diventano di più in ragione di una nuova veste grafica?
[2] Ovviamente, questo ragionamento vale anche per musica (fonogrammi) e film/telefilm (videogrammi).
[3] In Amici, amici degli amici, maestri ..., Milano, Baldini & Castoldi, 1994, p. 135.


martedì 24 gennaio 2012

LA CRISI ECONOMICA È COMINCIATA QUANDO HANNO INIZIATO A CHIUDERE I NEGOZI DI GIOCATTOLI?

LA CRISI ECONOMICA È COMINCIATA QUANDO HANNO INIZIATO A CHIUDERE I NEGOZI DI GIOCATTOLI?

Una banale indagine sui marchi riferibili ai giocattoli oggi in circolazione evidenzierebbe una situazione di oligopolio che rincretinisce i minori di dodici anni.

Bambino e ragazzino io, a parte il delizioso dualismo Corgi Toys-Dinky Toys – in cui si inseriva la Politoys – per le automobiline, si impazziva per il G.I. Joe della Hasbro, poi c’erano le armi giocattolo (so-called …) dell’Edison: sulla serie “matic” ci siamo fatti le ossa ma probabilmente il fucile Bengala (pesantissimo) avrebbe potuto sparare davvero, i soldatini della Britains Ltd. bellissimi!

Per dirvi che ci hanno ucciso i sogni, occorreva spiegare i nostri sogni (molto parzialmente ([1])).

Circa una quindicina di anni fa chiusero a Milano il negozio “Noè” (proprio come l’arca ma era il cognome dei proprietari): lutto più cupo dell’ala di un corvo reale in una notte senza luna alla Tower Of London: basta giocattoli, al loro posto vetri di Murano in galleria di Via Manzoni.
Oggi leggo che Murano è in crisi: posso essere solidale con i soffiatori, meno con i loro datori di lavoro che hanno distrutto i sogni dei bambini e dei ragazzi perduti.

Su toni meno poetici è Arturo Pèrez-Reverte (scrittore spagnolo di successo) dalle colonne de La Lettura dell’8 gennaio 2012 a supplemento del Corriere della Sera. Dovete leggerlo e condividerlo.
Infatti, la sostanza del suo articolo non credo sia dissimile da quella da me appena esposta: quella dei giocattoli è un’economia più reale di quella dei soprammobili di vetro soffiato.

Oggi i negozi non cambiano più classe merceologica: chiudono.
I ristoranti chiudono perché si chiamano osterie, ma il menù dichiara 14 Euro per una zuppa di cipolle: una volta in trattoria ci trovavi il professore scapolo e l’artista o il giornalista spiantato (come da La vita agra di Luciano Bianciardi; era semplicemente il quartiere di Brera a Milano).
E a Ibiza ci vanno quasi tutti, a vomitare e a far finta di ... (si veda ancora Pèrez-Reverte).

Non ci sono colpe specifiche, solamente un’incapacità di credere che la produzione di ricchezza e di richiesta di superfluo potesse prima rallentare, poi fermarsi, poi addirittura diminuire. Le vacche magre sembravano abolite.

Eppure, eppure moltissimi – come gli stolti uccelli dodo del primo film della saga de L’era glaciale – corrono ancora ignari verso l’abisso pensando che la crisi non li tangerà nemmeno.
Stolti, ripeto.
Ma chissà con cosa giocavano loro ([2]), o meglio chissà se gli è chiaro quale fosse il significato esistenziale di quei giochi.


                                                                                                                      Steg



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[1] Non ho citato né il trenino elettrico, né l’autopista, né il Meccano.
[2] Lascio alle bambine di ieri disquisire sui loro giocattoli, seri almeno come i nostri evidentemente.
È compito dei pazienti lettori di questo blog disquisire e lamentarsi rispetto alla mia cattiva abitudine di uccidere certi finali con una footnote che non permette di presagire nulla di definitivo.

PERLE MEDIATICHE - 4 Il Televideo RAI

PERLE MEDIATICHE - 4
Il Televideo RAI

Della “sgrammatica” e della morte della consecutio temporum in Televideo RAI non serve nemmeno scrivere. Evidentemente, non si ritiene che Televideo debba usare un Italiano corretto.

Ma a tutto esiste un limite.
Ecco perché sono costretto a segnalare come ben due volte nella prima notizia del 15 gennaio 2012 sia indicata Istanbul come “capitale” della Turchia.

È davvero una grande soddisfazione leggere notizie così precise: ovviamente è sarcasmo.
Perché non è che “li pagano” è che “li paghiamo”.

Desidero fare una precisazione: se mi trovo a commentare, per ora, solo la RAI questo deriva da due motivi: tutto ciò che è RAI è a pagamento indipendentemente dal fatto che dei programmi si voglia ([1]) fruire (lo sottolineo spesso, ma non guasta); obiettivamente sul versante informazione il “privato” nazionale (televideo a parte; ma spesso anch’esso è molto parziale) per più motivi non mi entusiasma e quindi faccio riferimento al pubblico.


                                                                                                                      Steg



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[1] Volerlo non è farlo. Ma se mi abbono a dei canali a pagamento, lo ho scelto e quindi si presume che li guarderò.

LETTERATURA E EDITORIA PERIODICA NON SPECIALIZZATA

LETTERATURA E EDITORIA PERIODICA NON SPECIALIZZATA

Letteratura e editoria periodica non specializzata: grande prudenza nello scrivere a proposito di libri?

I supplementi letterari (che siccome aumentano non possono, appunto, essere tutti specializzati dalla prima all’ultima riga) sono popolari quasi come le trasmissioni di cucina.
Dovrebbero in realtà fungere innanzitutto da “tamburino”, cioè da informatore sulle uscite meno ovvie.

Alcuni atteggiamenti mi danno fastidio: le pavide rubriche in cui il libraio scelto dalla testata giornalistica del caso indica ciò che si vende (ovvero i disprezzati best seller, ma senza dirlo troppo perché ci sono anche le pagine di pubblicità degli editori, forse?) indi elenca quel che consiglia.

Poi c’e`il critico mascherato – con licenza di stroncatura o anche solo di giudizio negativo –, cosi di nuovo si salvano capra e cavoli.
Ben peggio è il critico amico, del morto (per esempio di Simenon) o del vivo (per esempio di Faletti), poiché solamente chi bada alla firma lo scopre dopo due o tre recensioni consecutive ([1]).

E che dire degli scrittori santificati? Camilleri è simpatico anche se fuma.
Proust è invulnerabile a ogni, eventuale, critica.

Poi ci sono i quasi irrecuperabili: l’esempio Louis-Ferdinand Celine, che anche in Francia continua da morto a soffrire non poco e ad essere spesso oggetto di “mani avanti”, prima di giudizi positivi sulle sue opere romanzesche.
Ma forse di Celine è meglio che scriva in un’altra occasione, oppure mai.


AGGIUNTA NATALIZIA ([2])
Il supplemento culturale de Il Sole 24 Ore di domenica 18 dicembre 2011 in ben due pagine diverse (a proposito di strenne) si prodiga nel magnificare due volumi editi da Bompiani a propos de Il piccolo principe di Antoine De Saint-Exupery, ma...
Ma accade che di nuovo non ci sia niente di niente.
Una è la semplice traduzione si un libro edito in Francia da più di un anno. Una strenna riscaldata.
L’altro è addirittura la ristampa dopo anni (ripeto anni) della edizione italiana, altro che “inedito” della sceneggiatura di Orson Welles per il suo film, mai realizzato, tratto dal predetto libro.


E ADDENDUM DI GENNAIO
Con toni seri e giustamente, qualcuno si è preoccupato del calo, vistoso, dei lettori di libri nello scorso anno 2011. I lettori in diminuzione sarebbero fra coloro che leggono almeno un libro al mese, cioè quelli su cui si regge buona parte del settore editoriale nazionale.
Bene: ma perché non domandarsi se il calo non sia dovuto anche al vincolo degli sconti in libreria (massimo 15%) per non sfavorire i piccoli editori. Certo, invece i grandi possono inventarsi le promozioni con sconto ab origine del 25% per alcuni nuovi titoli.
Alla faccia delle liberalizzazioni (che in Francia lo sconto sia al 5% massimo non cambia il risultato. Là i libri usati costano spesso molto meno che in Italia).


Data questa situazione complessiva ([3]), provate un poco a riflettere, e pensate anche a cosa state leggendo e perché avete scelto quel libro.


                                                                                                                      Steg



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[1] Lieto di essere smentito, con specifica di recensione “nemica”, però.
[2] Questo post cova dall’autunno 2011.
[3] Ma non finirà qui.

mercoledì 18 gennaio 2012

LA BELLA VITA FINTA E LA MORTE VERA (Ovvero: a “cheap holiday in other people’s misery” and in your own too)

LA BELLA VITA FINTA E LA MORTE VERA
(Ovvero: a cheap holiday in other people’s miseryand in your own too) ([1])

Premetto che chi desidera una descrizione di come erano le crociere vere, uniche degne di tale nome, deve leggere quanto scritto su Il Foglio del 17 gennaio 2012 da Carlo Panella: “La banalità del mare”.

Il salmone affumicato finto e il caviale finto (entrambi con pesci allevati), lo champagne finto anche se la denominazione è vera (perché realizzato sempre più lontano dalle zone originarie). Solo tre esempi.
A un certo punto, diciamo inizio degli anni ‘80 del secolo scorso, con la scalata sociale che permette l’acquisto della pelliccia di visone (o tale dichiarata) anche nelle famiglie di operai, tutti vogliono tutto, ma non infrangendo le vetrine dei negozi e rubando le merci (il cosiddetto “esproprio proletario”) bensì diligentemente comprando ciò che forse non tutti possono permettersi perché scarso (non si tratta di sinonimo di costoso).

Ed ecco che allora comincia a strisciare il “finto”, se possibile non dichiarato tale, lusso per tutti.

I viaggi in aereo cominciano a farsi sempre più scomodi, si fanno sempre più rari i casi di un posto libero a fianco del proprio.

E gli alberghi? Anch’essi devono essere completi. Mai più una sorpresa (la bella camera non arriva perché se due camere sono diverse per dimensioni, quella di 1,50 metri quadrati in più diventa junior suite…), perché la tua stanza viene decisa con sempre più ampio anticipo.

I villaggi vacanze perdono la prerogativa francofona e cosi, pian piano, tutto viene appiattito in una capsula nazional-popolare che banalizza ogni località esotica dove la vacanza deve essere “come in Italia”. I turisti alle Maldive, o nel Mar Rosso, trascorrono la villeggiatura come in riviera in Romagna, ma inquinano di più.
Sintesi massima: le lasagne mangiate in Kenia, tutto compreso.

Sicché anche le navi diventano condomini con sala giochi e parco semi-sportivo, il mare un “incidente” (quindi si fa finta che non ci sia, una sorta di fondamenta liquide per un albergo) e l’escursione a terra non dista molto da calli e canali veneziani ricostruiti a Las Vegas ([2]).
Domanda: esiste ancora il mal di mare?

Tutti uguali.
Eppure tutti ancora disperati ad anelare per l’espresso e il quotidiano sportivo su carta non appena rientrati in Italia.

Villeggianti da macello, in fondo.
Squalificati e necessitanti sempre di personale che parli Italiano, le capacità e esperienza di quei lavoratori sono secondarie.

La cosa più vera rimane la morte, che strappa a una vita finta lo sfortunato turista di cui i mass media offrono un ricordo inevitabilmente mediocre e spesso sgranato (la foto realizzata con un telefono mobile?).
Mai più acquisti con grandi sconti di capi passati di moda, ma “firmati”, negli spacci che se chiamati outlet divengono belli e furbi per chi li visita come consumatore spesso bulimico (altre decine di chilometri di spostamenti, a inquinare); mai più svaghi sempre in gruppo, sempre vestiti a nuovo senza rendersi conto di sembrare come quei divani con il cellophane mai tolto di qualche lustro fa.

Ripeto la domanda: ma quella era vita vera?


                                                                                                                      Steg



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[1] Si veda “Holidays In The Sun” dei Sex Pistols per la citazione e la copertina del relativo singolo per l’essenza dell’argomento.
[2] Del resto, si pensi alla necessità di costruire una copia delle cuevas di Altamira, per evitare la distruzione di quello che si è preservato per 15.000, respirandoci su per 50 anni.

lunedì 16 gennaio 2012

CARLO FRUTTERO (SENZA DIMENTICARE FRANCO LUCENTINI)

Copia con dedica tripla a Giordano Bruno Guerri
 acquistata in libreria specializzata


CARLO FRUTTERO (SENZA DIMENTICARE FRANCO LUCENTINI)

Avevo imbastito quel post domenica 8 gennaio 2012.
Come accade anche in altri casi, dalla bozza al testo definitivo passa del tempo.

Lascio immutato il post sottostante e aggiungo un paio di cose.

Di alcuni libri di Carlo Fruttero e Franco Lucentini esistono solo prime edizioni, quindi attenzione ai prezzi che dovessero proporvi ([1]).
Ciò posto, la prima edizione de L’idraulico non verrà è rara; quella de La donna della domenica non è comune.

Spesso mi capita, da cacciatore di libri, di sfogliare copie di libri che già possiedo; anche in doppia copia magari perché alla prima edizione si arriva dopo. Lo faccio per la “ditta F&L” perché potrebbe capitare una dedica spiritosa.

Ricordo di aver partecipato recentemente a quel sondaggio de Il Sole 24 Ore per consigliare un autore per un “Meridiano”: sicuramente ho indicato Fruttero e Lucentini.
Per il resto, ritengo che al profano sarà chiaro cosa cercare da quanto trova menzionato qui sotto.

Un’ultimissima cosa: guardando le parole cercate sui “motori” che hanno portato qualcuno nel mio blog, oggi figurava già Fruttero perciò forse saranno cosa gradita queste righe.


FRUTTERO & LUCENTINI

Carlo Fruttero & Franco Lucentini: il secondo morto suicida e il primo anagraficamente non giovanissimo superstite del medesimo duo.
Eppure la rilevanza di questi due scrittori rimane intatta.

Conosciuti per un godibilissimo romanzo di cui ormai è impossibile capire la genesi: La donna della domenica, la loro carriera è sconfinata e come tale suscettibile solamente di personali e incompleti apprezzamenti.

Dati per torinesi ma lo furono solo a metà (sebbene Lucentini si sia suicidato a Torino ([2])).
Certo piemontesi per luoghi lavorativi e di ambientazione.
Obbligatoria è la “trilogia del cretino”, anche perché chi non la apprezza molto probabilmente è per lo meno rapito dal fascino di detta “categoria umana”.
Su toni e contenuti analoghi il compendio I nottambuli.

Nella narrativa finto leggera si deve menzionare il “seguito” ([3]) A che punto è la notte.
Mentre altre opere sono un poco meno consistenti, sebbene Enigma in posto di mare abbia un notevole fascino per chi apprezza il degrado generazionale.

Grande merito di F&L è la lievità stilistica capace di celare notevole profondità contenutistica e di istigare nel lettore la voglia di investigare autori e temi.

Mi permettono anche di utilizzare un termine così abusato che nel mio vocabolario è quasi estinto: ironici ma con un retrogusto iconoclasta.

Direi anche “molto francesi”, non solo a motivo della moglie di Lucentini.

Diressero l’unico possibile concorrente di Linus: Il Mago, sicuramente avrebbero avuto maggior successo nel sostituire Oreste Del Buono alla direzione del primo.

Un’ultima avvertenza: credo che la lettura di F&L invogli a visitare e conoscere Torino ([4]).


                                                                                              Steg



© 2012-2019, 2024  Steg, Milano, Italia.
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[1] Carmelo Bene già docet.
[2] Di quei suicidi che non hanno niente per cui una persona intelligente possa dolersi. Un altro grande suicida è Mario Monicelli.
A Torino si sono suicidati anche altri nomi illustri: ricordo Cesare Pavese ed Emilio Salgari.
[3] De La donna della domenica.
[4] Conoscere Torino può essere un fatto positivo, sotto altri profili artistici (o culturali che dire si voglia).
Musicalmente soprattutto per Fred Buscaglione e Gigi Restagno. Quanto a Restagno - dei Blind Alley chissà se e quando ne scriverò ... - intendo non i rifacimenti delle sue canzoni. L’unico caso in cui Internet mi ha fatto un regalo perché con tenacia si trova la sua “Coriandoli a Natale” nella sua versione: https://www.youtube.com/watch?v=twe9UG2fKy4.
Per correttezza ricordo anche i Rough, di nuovo con la versione originale della loro canzone “Torino è la mia città”: https://www.youtube.com/watch?v=cqOSyleSgzY.
Le cover - The Spaghetti Incident a parte - e le commemorazioni esasperate mi mettono molto disagio (come si può pensare che il pubblico non voglia ascoltare prima l’artista originale? Ed allora si realizzi senza ulteriore indugio un album con le registrazioni di Gigi Restagno, orsù!).