JIMI HENDRIX
(Forse tradito da chi lo ha limitato alla chitarra?)
Volendo complicarsi la vita, in ambito musicale ci sono una mezza dozzina di artisti a proposito dei quali scrivere.
Se poi (come me) non si è musicista, si aggiunge un fattore di ulteriore difficoltà scrivendo di un virtuoso dello strumento, secondo il luogo comune.
Ecco, allora Jimi – James Marshall (nato Johnny Allen) – Hendrix di Seattle.
Innanzitutto vederlo suonare con una Gibson – white body – “diavoletto” che smorza il suo mancinismo data la simmetria dei capotasti è interessante: siamo al Dick Cavett Show nel 1969 ([1]).
Allora, chi si occupa di Hendrix come chitarrista non ha capito molto.
Basta considerare l’album di esordio: una canzone come “Third Stone From The Sun” è un indice sicuro.
Mano nella mano con la sua fidanzata bianca e una raffica di pallottole che gli perfora la lamiera dell’auto. Ovvero “devi sceglierti dei musicisti di colore”.
Stiamo parlando di persone che raggiungono la immortalità in meno di un lustro. Altro che cari agli dei, questi sfidano gli dei.
Dunque reputo Hendrix un autore trascurato, mentre i suoi testi sono davvero superbi.
Certo anche come arrangiatore non è un tipo banale: “Are You Experienced?” non è calligrafia psichedelica.
Ma in questo giovane, non più ragazzino secondo i canoni di quasi mezzo secolo fa, già militare in una divisione aviotrasportata, vedo sempre un sorriso smorzato da un’ombra.
Guascone dunque, però senza rivali: alla chitarra non c’è sforzo e neanche esibizione di potenza; in questo è la sua superiorità verso tutti, priva di cattiveria, perché davvero senza sforzo con queste Fender da destri che all’apparenza gli danno un coefficiente di goffaggine può fare quel che vuole, strapazzandole con i denti e distruggendole con liquido per Ronson (o Zippo).
Così li distrae, i suoi rivali.
Comunque si sarebbero accorti prima o poi che “Manic Depression” è roba da punk (quelli che si sarebbero pochi anni dopo automutilati oppure bruciati le cellule cerebrali con la colla inalata)? Dubito.
Basta dietrologie buone solo per programmi televisivi da poco (ben più divertente è apprendere di Jimi Hendrix e Patty Pravo su una Fiat 500 in giro per Roma, destinazione Piper).
Orecchie attente e possibilmente una comprensione delle sue liriche – comparate ciò che il mercato offre, non necessariamente il più recente catalogo è il migliore – restituiscono l’artista intero, con pretese più ambiziose (gli Electric Ladyland Studios) e chissà quali altri sogni, senza dimenticare qualche retrogusto britannico.
Doveva esserci un album di Hendrix con Miles Davis. E uno di Miles Davis con Prince. Niente di tutto ciò.
Pensate ad un album di tutti e tre insieme o anche a tre album in “coesistenza”.
Il nero con gocce di sangue pellerossa (Cherokee), tenebroso a tutti i costi diventa un cliché, dunque, e la chitarra il ghetto musicale che lo ha al tempo stesso glorificato, ma cosi facendo anche tarpato.
Steg
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[1] Dick Cavett è un notevole mod ed è statunitense.
Il palmares dei suoi ospiti potrebbe risultare anche fastidioso, per me le tre apparizioni di Janis Joplin, quella di David Bowie fra i cani di diamante e i giovani americani, e quella negletta di Sly Stone sono degli obbligatori.
Meno male che gli album (ipotetici) con Hendrix e Prince non ci sono stati, ringraziando Iddio o chi per lui. Lasciamo San Miles persino alle sue nebbie (gli anni Blue Note e persino Prestige), o se non basta al primo soggiorno parigino postbellico (e mettiamoci pure quello di fine anni '50, 'Ascenseur Pour L'Echafaud', Juliette Greco e le altre). E bussiamo prima di entrare, se ci apre.
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