“ICH BIN WASHINGTON REDSKIN”
(gli
schieramenti del politicamente corretto)
Potrei depositarlo come marchio il
titolo di questo post.
Ma non negli USA.
Perché negli
Stati Uniti, il solerte US Patent and Trademark Office ([1]) federale
nel giugno 2014 ha
dichiarato che 6 marchi riferiti ai Washington Redskins (blasonata squadra di
football) non sono registrabili e, quindi, le registrazioni (depositate fra il
1967 e il 1980) sono cancellate, revocate per essere esatti.
Eh sì, perché il termine “redskin”
sarebbe offensivo per i Native Americans, almeno secondo la parte attrice in
questo procedimento amministrativo.
Seguirà verosimilmente
giudizio d’appello e, magari, arriveremo in qualche modo al giudiziario e alla
Supreme Court federale ([2]).
Agli inizi del blog citavo un articolo giornalistico italiano schierato contro
il politically correct.
Illuso!
In un altro post evocavo le virtù del punk, dove un
mongoloide è chiamato tale, senza giri di parole.
Illuso!
Il down (l’ex
mongoloide) è sempre “il migliore” per i suoi familiari, proprio come il figlio
normale è sempre un genio per i genitori. Poveretti, per colpa dei familiari, i
down o mongoloidi, ma anche i normali, quando diventano adulti.
Intanto si
rischia di perdere un altro pezzo di libertà d’espressione.
Le parolacce
sono di (ab)uso comune, la proprietà di linguaggio non più.
Ah e il titolo di
questo post è una variazione della
forse ancora celebre frase pronunciata il 26 giugno 1963 da John Fitzgerald
Kennedy; uno statista insindacabilmente tanto caro ai politicamente corretti di
oggi ([3]).
Come vedete,
anche il politicamente corretto si può schierare politicamente, a piacimento e
a seconda dei periodi storici.
Steg
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pubblico senza il preventivo ottenimento, in ciascun caso, dell’espresso
consenso scritto dell’autore/degli autori.
[2] Lo
preciso in quanto in certi stati la Supreme Court e` alla base e non al vertice
del sistema giudiziario locale.
[3] Molto
meno gradito 40 anni fa agli iscritti al PCI, che se non ricordo male non
potevano visitare gli USA, peraltro a loro volta ben allineati su come si “domavano
le rivoluzioni” del dopoguerra, dall’Ungheria alla Cecoslovacchia.
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