DAVVERO
LA MUSICA È RIDOTTA COSÌ?
Premessa
informativa: Ruta 66 è la rivista musicale
spagnola (probabilmente anche di lingua spagnola) più autorevole che ci sia;
accade, anche, che siano molto esperti, appunto, i loro redattori e
collaboratori.
Fra le sue penne
più celebri c’è Ignacio Julià; egli è forse il nome più celebre all’estero, per
un motivo ben preciso: Julià è uno dei massimi cultori, nel mondo, di The
Velvet Underground ([1]). Ebbene, questo giornalista ha scritto un editoriale per il numero 295 (del luglio-agosto 2012) che ritengo sia da sottoporre anche agli Italiani.
Mi permetto una sua
traduzione in ragione dell’articolo 70 della legge n. 633 del 22 aprile 1941,
ovviamente assumendomi la responsabilità per la bontà della traduzione. Parole
in parentesi quadra e note sono mie.
“Servire l’assoluto
“Lo leggo e non
ci credo. Mi riferisco al vistoso titolo estrapolato dall’intervista con un
giovane gruppo musicale nazionale – non farò nomi, la sua opinione riflette il
segno dei tempi, la sua musica perita presunzione di validità [qualitativa] – che
pubblica il quotidiano spagnolo di maggior diffusione ([2]). Dice
così: ‘mettiamo in piedi un gruppo, però avrebbe potuto essere un ristorante’.
Quindi, nell’articolo, precisano che ‘la musica è lavoro come l’ufficio’ e che
loro sono, glielo ricorda giornalmente il loro commercialista, ‘un’impresa’.
“Se quest’ultima,
sebbene addolori, pare una verità indiscutibile, la prima affermazione mi appare
il sintomo di una delle molte patologie che oggi affligge la musica, una volta divisa
fra il genio singolare di pochi e la rassegnata mediocrità del resto, oggi altro
settore sovrappopolato della industria dell’intrattenimento digitale.
“Quanti gruppi
risultano in realtà non necessari e tristemente congiunturali? Quante band sono
semplice passatempo per giovani oziosi che decidono di sfidare la sorte? Quanti
musicisti hanno realmente qualcosa di viscerale trascendente da esprimere e
quanti semplicemente lo simulano per vivere per qualche mese l’avventura del
rock?
“Diceva il
filosofo Paul Tillich, riflettendo su ciò che è l’arte e se sia fattibile o
meno discutere riguardo a questioni estetiche, che il criterio in base al quale
un’opera d’arte lo è veramente passa attraverso il domandarsi se serve
all’assoluto. Tutto il resto – se è apprezzata o meno dal pubblico, se funziona
come artefatto commerciale, se diverrà parte del canone storico – risulta
accessorio, trascurabile. Si può naturalmente addurre che il rock non è arte,
che il suo aspetto ludico è pertanto giusto e necessario, che non solo si deve
servire l’assoluto, che il suo aiutarci a ammazzare il tempo è già abbastanza
gratificante, però valga la formulazione metafisica per allontanarci dal
presente e vederlo in prospettiva. Il primo [sintomo] che avvertiamo è la
nocività del suo aumento esponenziale. Quanti musicisti possono dire di aver
suonato a Woodstock? Qualche scarsa decina. Quanti al Primavera Sound ([3])?
Migliaia!
“Coloro i quali
oggi si dedicano alla musica lo fanno per altre ragioni: la maggioranza guidata
da un dilettantismo che si esaurisce in se stesso e affonda il livello medio sotto
i minimi, autoconvinti dell’importanza dei loro dell’importanza dei propri
sentimenti ed idee e perciò disposti a diffonderli in un modo o nell’altro,
animati dalla fallace esposizione universale che forniscono le reti sociali e altri
labirinti ciberspaziali, incoraggiati dall’illusione di far parte del vagone di
coda di una storia in continuo riciclo, ossessionati per apparire nella foto e
sperimentare sebbene in piccola scala ciò che percepirono i loro eroi, creduli
davanti alla tacita promessa di far sesso senza impegno sebbene si soffra di
alitosi tossica. Forse dovremmo limitare la creazione a coloro che la vivono
come un impulso ineludibile, un’ossessione opprimente, nutrimento principale
della loro esistenza.
“‘Parto da un
punto e arrivo il più lontano possibile’, soleva ripetere John Coltrane. Quest’ambizione
per raggiungere l’inesprimibile, l’imprendibile, mantiene relazione con l’assoluto
al quale come umani possiamo solamente aspirare. Questo è l’accordo, prendere o
lasciare. Coltrane personifica il musicista totale, quello che occupa tute le
sue ore di veglia – e sicuramente anche quelle oniriche – affinando il suo
istinto di improvvisazione, elaborando suoni e emozioni, leggendo a proposito
di altre discipline che possano alimentarlo e assimilando tutto ciò che accade
intorno a lui. Apparteneva ad una specie di esseri, lo fecero anche nel rock [i
suoi simili], che passarono la vita intera consumati dalla loro arte.
“Oggi
proliferano i pigmei, quando loro erano giganti. [Loro] creatori i quali non
crea vergogna chiamare artisti, anime alle quali – stanne certo – mai è
accaduto di ‘aprire un ristorante’. Né, ovviamente, badare al proprio
commercialista. O a un cretino”.
(Ignacio Julià, “Servir al absoluto”, Ruta
66, n. 295, luglio-agosto 2012)
Che ne pensate?
Escludendo
eccezioni imprenditoriali (a memoria: Linda McCartney socia del primo Hard Rock
Café, e parlo di metà degli ultimi anni settanta; uno dei Rolling Stone anch’egli
nell’attività ristoratoria) e un forse unicum
fra i consulenti finanziari (il principe Rupert Ludwig Ferdinand zu
Loewenstein-Wertheim-Freudenberg per i Rolling Stones, ancora loro),
Julià non ha tutti i torti o, per lo meno, induce a far riflettere pubblico ed
artisti (o sé dicenti tali), anche a fronte di talune iniziative certo non
dettate da mero afflato artistico ([4]).
Steg
©
2012 Steg, Milano, Italia/© 2012 per l’articolo in
lingua originale “Servir al absoluto” RUTA 66, 2012, SPAGNA.
Tutti i diritti riservati/All rights reserved. Nessuna parte di questa opera e/o la
medesima nella sua interezza può essere riprodotta e/o archiviata (anche su
sistemi elettronici) per scopi privati e/o riprodotta e/o archiviata per il pubblico
senza il preventivo ottenimento, in ciascun caso, dell’espresso consenso
scritto dell’autore.
[1] Il
fatto che di esperti come lui ce ne siano, direi, una decina non fa male.
Evidentemente non bastano, se sono stato costretto a scrivere un post in difesa, ancora una volta, della
compianta (certo non santa, ma importante artista) Nico.
[2]
Dovrebbe essere El Pais, N.d.T.
[3] Evidentemente un festival
musicale spagnolo.
[4] Mi
riferisco alle linee d’abbigliamento firmate, anche da Paul Weller, o alle –
ben conosciute dai miei lettori – non sempre esaltanti edizioni librarie di
lusso dove si compra soprattutto un autografo.
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