CAPITAN HARLOCK
(childhood
wasteland; not just a motion picture)
Ricevo il post che qui di seguito pubblico sempre
da EKS, quindi dall’autore (autrice), fra l’altro, della doppia striscia a
fumetti Vice-Versa: http://eksviceversa.wordpress.com.
Il sottotitolo è
mio, così come quanto si trova fra parentesi quadre.
Mi riservo di
commentare (in questa o altra sede) il film, comunque in forma complementare e
non supplementare rispetto a EKS.
Steg
CAPITAN HARLOCK
Diversi lustri sono passati da quando
andavo all’asilo. All’epoca si andava all’asilo, non alla Scuola Materna.
Non c’era nulla di particolarmente
interessante nel mio asilo, disegni alle pareti, giochi sfondati, una
piantagione di fagioli nati nell’ovatta, il tè con il limone. Io avevo lo
spazzolino da denti con Paperino che suscitava grande invidia nei miei compagni
di classe. Azzurra e Rosa erano gemelle e si sarebbero suicidate poi a 18 anni
con il gas di scarico dell’auto. Alcune bimbe dell’altra classe si vantavano di
saper scrivere non solo il proprio nome, ma anche il cognome. Gli altri bambini delle scuole elementari oltre il recinto, che non percepivo come più grandi, ma come creature altre ed estranee.
Ai tempi dell’asilo mi piaceva Capitan Harlock. Non mi piaceva nel senso che danno le bimbe alle cotte infantili, ovvero “da grande lo sposo”. Ero già ben cosciente che era un amore impossibile perché lui era tanto bello e misterioso, con il fascino dell’eroe infelice e tormentato, idealista e votato unicamente alla causa. Quindi, non c’era storia. A cinque anni tutto mi era già chiaro. La vita era ben altro che quel maledettamente felice coniglietto bianco di Koper Kapodistria delle 20.30, che segnava il limite invalicabile della veglia: “guarda il coniglio e poi vai a dormire”.
Passati dunque quei lustri, è uscito un
lungometraggio su Capitan Harlock.
Vado a vederlo al cinema sebbene odii
andare al cinema: troppa gente, volume troppo alto, immagini troppo grandi.
Molti bambini in sala, chissà cosa capiscono della storia. Capitan Harlock è bello, con la cicatrice di traverso [del viso] e la benda sull’occhio [destro]. Penso sia proprio bello, penso come quando ero bambina.
L’[astronave] Arcadia è grandiosa,
auto-riparantesi se viene danneggiata, mossa dalla materia oscura il carburante
perpetuo, con il suo vessillo sfilacciato, il timone e il trono del Capitano.
Grandi armature, nessuna ispirazione alle
corazze dei guerrieri giapponesi, piuttosto lo spunto risulta essere preso dai
giocatori di rugby americano e dalle prime tute dei palombari del XIX secolo. Le battaglie sono interessanti, lo spostamento delle navi da guerra in modalità “skip off” (sembrano venire scansionate per venire lanciate a distanza a velocità). Alcuni piccoli trucchetti olografici per creare la sorpresa nello spettatore sono ben riusciti.
Le armi finali della Gaia Sanction sono spettacolari.
I personaggi sono impregnati di una profonda giapponesità: i fratelli in competizione, la venerazione per il senpai, mimica facciale e lettura del labiale perfettamente attinente al giapponese. Mi sembra di percepire una polemica contro la religiosità organizzata e contro la schematizzazione gerarchica cinese.
Soffro un pochino per la somiglianza della trama con l’episodio del 50enario del Doctor Who. L’Arcadia è viva come il Tardis. Il Capitano non può morire e deve espiare un errore commesso, seppure mosso da buone intenzioni, come il Dottore. Alla fine si lascia spazio ad un avvicendamento tra capitani e dottori. Saranno tematiche da inizio millennio.
Ma basta vedere il profilo del pianeta costeggiato dall’Arcadia che si allontana, per riconciliarsi con i ricordi infantili di piccoli attenti spettatori. Superbe profondità spaziali catturate da astro telescopi negli ultimi decenni, fanno da sfondo al passaggio dell’astronave pirata, con luminosità di galassie lontane. Ad ogni modo, l’astrofisica ormai è accettata, i nodi temporali che trapuntano lo spazio e la reversibilità del tempo non sono nozioni astratte, ma strategie non ancora verificabili. E naturalmente serve un Capitano per pensare e mettere in atto un grande piano di azzeramento temporale.
La morale finale è che la vita umana non è
indispensabile, anzi, altra vita si creerà se ci estinguiamo. Come sempre è
solo una questione matematica, alla fine basta che i conti tornino: che la
quantità di materia e di energia sia sempre la stessa, non importa sotto quale
forma. Allo stesso modo l’energia e l’Arcadia sono al servizio del Capitano,
non importa quale impresa azzardata voglia portare a termine.
EKS
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