ZONA
BRERA
(Steg about
Steg Series - 7)
L’idea per queste righe nasce da un romanzo italiano,
piuttosto noto ed apprezzato dalla critica: La vita agra di Luciano
Bianciardi ([1]).
Quando lo lessi ricordo che incontrai alcuni riferimenti
che erano stati sì mascherati, ma in modo tale che chi frequentava Milano (e
Brera in particolare) in effetti potesse quasi sempre indicare “il nome giusto”.
Qualche anno fa del capolavoro personale bianciardiano è
stata pubblicata un’edizione “annotata a cura di Alvaro Bertani” e con
prefazione di Arnaldo Bruni ([2])
la quale consente anche ai non milanesi curiosi di conoscere i riferimenti
reali dello scrittore grossetano.
Precisazione: la mia “zona Brera” ha confini personali, è
molto lunga e poco sfrangiata, forse.
Pare che Brera derivi dal longobardo “braida” a
sua volta forse derivato dal tedesco “breite” ([3]).
Quindi stando in Piazza della Scala, spalle al Municipio, guardando sulla
sinistra la facciata dell’omonimo teatro operistico più famoso del mondo si
entra in Via Verdi (mai sentito un milanese premettere “Giuseppe”) e sull’angolo
di destra con Via Manzoni si trovava un bel bar-sala da te di Alemagna.
Scendendo di qualche metro sullo stesso marciapiede dagli anni sessanta si
incontrava la Milano Libri, libreria ed editore del mensile Linus ([4]).
L’isolato finiva con forse il primo ristorante giapponese della città ([5]).
Proseguendo per Via Brera, ricordo sempre sul lato destro una galleria d’arte
al civico 6 (mantenendo però nella denominazione il numero “32” della sua
primigenia sede) di proprietà del cognato di Aligi Sassu, Alfredo Paglione ([6]): mio
padre ci comprò qualche quadro, nessun capolavoro peraltro. In qualche modo era
“sulla strada”.
Quella di Via Fiori Chiari, infatti, è sicuramente la parte di questa
zona che più mi riguarda: essa è a sinistra di Via Brera, mentre sulla destra
si trova Via Fiori Oscuri (dettaglio che mi faceva sorridere quando ero
scolaro).
Innanzitutto per un locale “Al soldato d’Italia” ([7]):
trattoria toscana (ancora lato destro arrivando da Via Brera) dove forse ho
consumato il più alto numero di pasti della mia vita, partendo dai miei tre
anni di età. Gestito negli anni quasi sempre dal Signor Gino Quiriconi e dalla
Signora Bianca, salvo qualche alternanza con l’altro ramo famigliare capeggiato
dal Signor Attilio ([8]). Ero
un po’ una mascotte per i camerieri, che ogni tanto mi proponevano “bistecca di
leone” o altro per tenermi buono.
E gli stuzzicadenti a sezione “quadrata” con cui (ne servono cinque) facevo
i “ponti” e poi mi venivano incendiati su una estremità per farli saltare (dagli
otto in poi mi occupavo io anche dell’innesco).
I cannelloni al forno, gli spaghetti “alla pt.esca” (indicati nel
menu in ciclostile), una lista dove mezzo secolo fa si trovavano anche le uova.
Il minore dei due figli divenne per me (verso i miei dieci anni) una
sorta di zio scapestrato: Pietro mi fece provare da passeggero auto le più
disparate, mi portò al Gran Premio di Montecarlo, mi spiegò i bottoni da
slacciare dei polsi (o polsini) delle giacche, …
Con il passare degli anni era diventato un locale da 3-4 cena la
settimana, in ragione del lavoro e degli orari paterni, oltre che da domenica a
mezzogiorno come agli inizi.
Ogni tanto si cambiava locale, uno che resistette durante i miei studi
accademici fu “Franco il contadino”: cena pre esame (salvo quando era di
chiusura ([9])),
stesso lato.
La via prosegue, per me, almeno sino a che non si gira a sinistra, si
percorre brevemente Via Marco Formentini e si arriva alla “chiesa sconsacrata”
di San Carpoforo: la ragione è semplice: lì fuori conobbi alla fine della
estate 1977 Antonio “Tonito” Talatin ([10]).
Poi, di nuovo scendendo lungo Via Brera, c’è il bar Giamaica ([11]),
citato da Bianciardi nel suo romanzo ma con altro nome ([12]),
che è probabilmente il locale di Milano più noto quanto a scena artistica (il
vicoletto che congiunge Via Brera a Via Fatebenefratelli è ora intitolato a
Piero Manzoni che abitava al civico 16 di Via Fiori Chiari ([13])):
rimando a Pino Corrias ([14]).
Taglia la strada Via Pontaccio, per me essenzialmente nota siccome sul
suo pavé provai con Pietro la sua dune buggy color nero con motore
Porsche … (e all’angolo con Brera “batteva” la Paola, che era Paolo, qualche
anno prima, verso il 1968. Avete già un lato selvaggio).
Se invece prendete a destra e poi subito a sinistra attraversate il
sagrato della Basilica di San Marco e sulla destra nella omonima via trovavate
il vero “Tumbun de San Marc”, dove avevano la birra Guinness ([15]) e
quindi era quasi un pub.
Evitando la deviazione a sinistra arrivate in Via Fatebenefratelli e
quindi alla sede della Questura (la mia memoria è dell’ufficio passaporti. Giorgio
Scerbanenco e Renato Olivieri sarebbero arrivati anni dopo, molti).
Se invece non girate, andando subito dopo via Pontaccio la via diventa Solferino
e subito sul lato sinistro c’era la boutique – non si chiamavano più
negozi – di proprietà de L’Equipe 84.
“Dovete” superare Largo Treves, attraversare e a destra trovate il
palazzo dove aveva sede tutto quanto era “Corriere”: della sera, d’informazione,
La Domenica del, Corrierino dei piccoli, … tutto il giornalismo italiano che
contava, Mino Milani, Hugo Pratt, …
Per un annetto scarso (nel 1972 direi) mio padre fu capo redattore del Corriere
d’informazione.
La mia “zona Brera” finisce territorialmente con un ricordo sgradevole,
ma non traumatico: in fondo a Via Solferino abitava il mio maestro di III, IV e
V elementare: un toscano molto pignolo (classe 1922), scapolo, che piaceva
tanto alle mamme dei suoi scolari.
Gli è che chiacchierando a casa nostra con un mio di nuovo compagno di
classe (di cui ben ricordo il cognome), sono ora alle medie inferiori, mio
padre menziona il maestro F. P. e il mio compagno dice senza giri di parole che
il maestro era un pederasta.
In effetti, … ma eravamo svegli e quindi non sarebbe accaduto nulla di
che; o almeno a noi che lo frequentavamo solo in pubblico – a scuola – non è
accaduto nulla.
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[7] Idem, p. 44, nota 44: diventa “Il bersagliere”.
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