Distintivo in metallo venduto dal sito ufficiale di Hunter S. Thompson |
“GONZO JOURNALISM”: le vite non parallele di Hunter S. Thompson, Jeffrey Bernard e qualcun altro
1. Quando si scrive o si parla di giornalismo “gonzo” si cammina sulla lama di un rasoio.
Tanto che, per chi vuole una indagine a tutto campo, mi limito ad una citazione ([1]).
Per poter proseguire, si può affermare approssimativamente che si tratta di giornalismo – o forse è meglio parlare di “cronismo” ([2]) in quanto le cronache contenute nell’articolo possono anche avere sin dall’inizio futura collocazione in un libro – in prima persona nel quale hanno spazio anche le emozioni dell’autore.
Siccome il primo ad essere associato al gonzo journalism è stato Hunter S. Thompson, egli divenne la matrice che attribuisce significato all’espressione, anche se egli è ritenuto parte dello stile del “new journalism” nordamericano degli anni sessanta e settata del ventesimo secolo, in cui trovano posto autori come Tom Wolfe ([3]).
Non credo sia assurdo affermare come – e si veda infra – il giornalismo gonzo possa ormai essere trattato quale stile di scrittura pressoché chiuso in termini di suoi rappresentanti di qualità; con un appiattimento che rende la quasi totalità degli attuali giornalisti che ad esso si rifanno dei “pseudo-gonzo”, con articoli che diventano quindi gonzo per gonzi (e non è un gioco di parole).
2. Hunter S. Thompson ([4]) è diventato una sorta di nume tutelare per giovani e adulti che non amano il compromesso ed indulgono (oppure indugiano) in machismi in ultima analisi più autodistruttivi che aggressivi verso i deboli.
Ma, ovviamente, egli ha fatto la gavetta perché è nato negli USA, quindi chi pensa che lo scrivere gonzo lo si possa improvvisare, è meglio che cambi stile nello scrivere, oppure legga altro.
Nato nel 1937, comincia a scrivere mentre presta servizio militare.
Quando era meno conosciuto (una trentina di anni fa), chi da questa parte dell’Atlantico aveva nello scaffale un suo libro solitamente aveva scelto Hell’s Angels: The Strange and Terrible Saga of the Outlaw Motorcycle Gangs, già interessante nel titolo a doppia aggettivazione.
Un libro a taglio ancora documentaristico, certamente.
L’esplosione dello stile pirotecnico, non sempre comprensibile, del “Duca” (dal suo alter ego narrativo Raoul Duke) è in Fear and Loathing in Las Vegas: A Savage Journey to the Heart of the American Dream dove si rinviene anche l’espressione “Gonzo journalism” ([5]). Esce in due puntate sulla rivista musicale Rolling Stone nei numeri di novembre del 1971.
Diviene quindi collaboratore di quella testata (la quale ricambierà il fatto di avere questo fiore all’occhiello, dopo la morte di Thompson).
Sicuramente è una sorta di spostamento nei gusti, con gli emarginati o anche i semplici outsider diventati tardivi “numi” fra la fine degli scorsi anni ottanta e la decade successiva che porta il Padre del gonzo writing verso un pubblico più vasto; grazie anche alle splendide illustrazioni che Ralph Steadman, peraltro suo pard sin dal 1970.
Una versione cinematografica delle avventure di Raoul Duke e Dr. Gonzo è poi una sorta di consacrazione, pur se lungi dal commerciale, offertagli dalla regia di Terry Gilliam nel 1998, con Johnny Depp nelle parti di H. S. Thompson ([6]).
Gli anni scorrono, scanditi fra glorie passate, ma imperiture, e prove letterarie non sempre felici.
La salute calante prende il sopravvento e così il Duca decide di chiudere la partita: con un colpo di pistola si suicida alle 5:42 del pomeriggio del 20 febbraio 2005, era finita la “stagione sportiva” ([7]).
Johnny Depp si accollerà le spese di una cerimonia funebre con un razzo che sparerà le ceneri di Thompson su nel cielo.
3. Meno noto, Jeffrey Bernard, nato Jerry Joseph Bernard, nel 1932 a Londra ([8]).
Evidentemente egli ha vissuto i bombardamenti, cosa invece mancata a Thompson, con una madre artista e una famiglia di quelle, appunto, in cui la signorilità è disposta a lottare contro la mancanza di mezzi materiali (si veda, anche, Derek Raymond).
Bernard è un ribelle che non sa tanto cosa fare nella vita, ed infatti lavora in cantieri in gioventù, ha una vita costellata di mogli (quattro) ma una sola figlia che probabilmente nemmeno ha concepito lui.
Ama il pugilato, che pratica, e l’ippica che invece “frequenta” come scommettitore accanito.
Fuma e beve. Oh, se beve.
Fra gli amici illustri annovera il pittore Francis Bacon.
Ad un certo punto comincia guadagnarsi – letteralmente – da vivere scrivendo brevi articoli nei quali si fa spazio sempre più prepotentemente la sua vita privata.
Gli scontri verbali nelle sue colonne (la rubrica si intitola “Low Life” e non solo per fare da contraltare a quella intitolata “High Life”, enough said!) sono davvero da guttersnipe: dalle discussioni con il guvnor del suo pub preferito, ad un fisco che dipinge sempre come rapace, a donne che non lo comprendono, a medici assolutamente incapaci ogni qual volta egli si trova – e con l’invecchiare i ricoveri aumentano – in un ospedale, e poi corse di cavalli con vincitori sicuri che perdono e lui con loro, vacanze pagate da altri, bottiglie e bottiglie e bottiglie di vodka ….
Dagli anni settanta si arriva ai novanta del secolo scorso, attraversando senza accorgersene la società britannica e seguendo le sue vicissitudini, fra mondo privato e carriera.
La riduzione teatrale della sua vita e dei suoi scritti, Jeffrey Bernard is Unwell, con Peter O’Toole inizialmente nella parte del protagonista, è un inaspettato successo che dà al suo ispiratore e coautore una certa sicurezza economica.
Degna di nota la sua, dichiaratamente cordiale sebbene breve, frequentazione di Graham Greene.
La salute degenera, gli viene amputata una gamba; il che non gli impedisce di frequentare ancora, sebbene a fatica. i pub. Alla fine soccombe: muore a Londra il 4 settembre 1997.
Restano alcune raccolte di suoi articoli ([9]), nella brevità facili da leggere, ma non per questo privi talvolta di un acume quasi sempre amaro.
4. Almeno un esponente del giornalismo gonzo in ambito musicale è da ricordare, anche perché i suoi primi epici articoli hanno un respiro che ricorda Thompson di cui è, appunto, una sorta di versione da palco, poiché non affronta campagne elettorali, bensì artisti talvolta anche fisicamente pericolosi: si tratta di Lesley Conway Bangs, noto come Lester Bangs ([10]).
Nella sua prosa c’è un’epica, anche disperata, ma sempre con l’entusiasmo del grande giornalista che riesce ad entusiasmarsi per quanto sta recensendo: così Metal Machine Music di Lou Reed è, per esempio “The Greatest Album Ever Made”.
La carriera di Bangs è breve ma intensa, abbraccia il punk arrivando, lui statunitense, a delle cronache ([11]) al seguito di The Clash in tour in Terra d’Albione che sono imperdibili.
Muore, male, il 30 aprile del 1982 a New York, di overdose; Con Dare di The Human League sul piatto, si dice. Il che pare curioso, per un giornalista che era vicino non solo al punk, ma anche al post-punk di Metal Box di Public Image Limited.
5. E giornalisti gonzo italiani?
Almeno per ora, mi accontento di fare – letteralmente – due nomi: Gianni Brera e Giancarlo (o Gian Carlo) Fusco.
Qualcuno potrebbe anche ribattere, che allora anche Ernst Hemingway … forse, però mi pare che la sua poca autocritica non lo possa far annoverare in questo pantheon dove nella mente di qualche lettore possono anche risuonare strofe tratte da canzoni oppure da insegne di corpi speciali militari: “Born to lose/Live to win”, “Fight with the best/Die like the rest”.
Insomma, mi pare di aver scritto un’altra variante sul punk, o sbaglio?
Steg
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[1] Martin HIRST (January 19, 2004), What Is Gonzo? “The Etymology of an Urban Legend”, University of Queensland . http://eprint.uq.edu.au/archive/00000776/01/mhirst_gonzo.pdf.
[2] Che credo suoni meglio di “rapportismo” o, peggio, di “reporterismo” (e mi astengo dal commentare oltre l’accentazione quasi sempre sbagliata di chi impiega “report” anziché rapporto o relazione: sono quelli che NON conoscono l’Inglese, di norma).
Mi pare suoni anche meglio di cronachismo, che non ha una valenza molto diversa da “cronaca”.
Chi vive nel mondo del giornalismo, anche solo di riflesso, sa che il giornalista se ha successo, meglio ancora se come inviato (se “speciale” siamo ai massimi) poi si dipinge come “umile cronista”, che è come la “cintura di colore” che tira arti marziali indossando la cintura bianca. Forse la modestia bisogna sapersela permettere (gli altri sono infatti tutti “dottori”, etc.)..
[3] Cioè Thomas Kennerly “Tom” Wolfe nato nel 1932, noto ai più per The Bonfire of Vanities, in realtà da conoscere a partire da quella dirompente raccolta di articoli (appunto) intitolata The Kandy-Kolored Tangerine-Flake Streamline Baby (fu pubblicato in Italia da Feltrinelli col titolo La baby aerodinamica Kolor Karamella, è più semplice trovare un’edizione in lingua originale).
È anche l’inventore dell’espressione “radical chic”.
[4] In questo come in altri casi mi astengo da una biografia pedissequa che o si ricerca altrove in Internet oppure, più tradizionalmente, addentrandosi in una fitta schiera di biografie più o meno autorizzate (ma anche queste tollerate), con prefazioni ufficiali (la giovane vedova Anita Bejmuk Thompson), illustri oppure sentite (mi riferisco alle prefazioni ad opera di Johnny Depp), eccetera.
[5] “Free Enterprise. The American Dream. Horatio Alger gone mad on drugs in Las Vegas . Do it now: pure Gonzo journalism”.
[6] Depp ha probabilmente interpretato il miglior bouquet di film culto che si possa desiderare; gli manca solamente la parte di Rusty James (che fu di Matt Dillon) in Rumblefish di Francis Ford Coppola.
[7] Il biglietto d’addio intitolato “End of the football season”, recita: “No More Games. No More Bombs. No More Walking. No More Fun. No More Swimming. 67. That is 17 years past 50. 17 more than I needed or wanted. Boring. I am always bitchy. No Fun — for anybody. 67. You are getting Greedy. Act your old age. Relax — This won’t hurt”.
Sembra quasi una lirica di Iggy Pop, e può suonare molto realistica.
[8] Unica biografia, non spumeggiante ma onesta e interessante, è quella di Graham LORD, Just The One – The Wives and Times of Jeffrey Bernard, London, Sinclair-Stevenson, 1992, poi aggiornata.
[9] Non difficili da reperire pur se il prezzo talvolta non è (più) incoraggiante: Low Life, quindi More Low Life e Reach For the Ground: The Downhill Struggle of Jeffrey Bernard.
[10] La grandezza di un biografo sta anche nella capacità di imbastire un buon libro pur di fronte a una vita che è costituita più dalle opere del soggetto di cui si scrive che non dalle sue vicende personali: è ciò che si rinviene nel testo di Jim DEROGATIS, Let It Blurt: The Life and Times of Lester Bangs, America’s Greatest Rock Critic.
[11] Due raccolte di scritti per lui: la inaspettata, circa 25 anni fa, Psychotic Reactions and Carburetor Dung: The Work of a Legendary Critic e, nella mia opinione in parte propiziata proprio dal successo (relativo come sempre) di essa, la successiva Main Lines, Blood Feasts, and Bad Taste: A Lester Bangs Reader.
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