THE BIG
BRASS RING: ORSON WELLES E DAVID BOWIE
(parallelismi
impossibili fra due artisti incommensurabili)
1. Un incipit interrotto.
Questo post doveva intitolarsi: “69: note minime accidentali bowiane intorno
a un numero” e lo ho iniziato il 9 gennaio 2016.
Cominciava così.
Il giorno 8
gennaio 2016 David Bowie ha compiuto 69 anni e ha pubblicato Blackstar ([1]).
Il giorno 8
gennaio 2016 ho cominciato a leggere David
Bowie ouvre le chien, di Jérôme Soligny ([2]).
Il numero 69 ([3]) è
più affascinante di una parola palindroma. Basti pensare alla hendrixiana “If
Six Was Nine” ([4]).
Più – forse? –
seriamente, questo numero evoca graficamente, o è la riflessione aritmetica, di
yin e yang.
Si parla,
dunque, di opposti e di specchi.
La mia
formazione accademica è stata forgiata da grandi Maestri e, anche, da dubbi che
si sono rivelati fondamentali.
La base di ogni,
ogni, mia lettura mia ricerca, mio approfondimento è ormai da decenni la
seguente: trova e apprendi la regola, soltanto dopo potrai affrontare le
eccezioni ([5]).
2. Una prosecuzione a due voci.
Qui si
interrompeva il testo, e – indipendentemente dalla morte di David Bowie – il
suo sviluppo è diverso per due ragioni: un pensiero interrotto a metà non lo ho
più recuperato, il giorno 13 gennaio
Prima, però, una
precisazione: il libro di Soligny è molto interessante, ma leggerlo come testo
di base per conoscere David Bowie è sconsigliato, in quanto esso non offre
certezze, bensì presuppone altre e più ferme opere dedicate all’artista
britannico per mettere anche in dubbio alcune date, alcune note tecniche,
eccetera. Insomma, esso è un buon indice del fatto che anche grandissimi
artisti non sono definibili e “sicuri” come regole immutabili, a partire dal
fatto che anche loro si sono sempre dimostrati insoddisfatti di se stessi.
David Bowie: nato l’8 gennaio
Anche non considerando gli indici dell’aspettativa di vita, per cui almeno un lustro in più d’aspettativa sarebbe attribuibile a Bowie rispetto a Welles, è evidente che il primo nell’aspetto avesse una cera ben più sana del secondo.
Dunque, sin da subito l’apparente vicinanza di età alla morte fra questi due figure – per le quali anche sinonimi come colossi, giganti, titani e simili paiono insufficienti – si risolve in un dettaglio numerico ([7]).
Due opposti dunque? Forse non proprio.
Il titolo,
quello nuovo e definitivo, di questo post
è quello di un film non realizzato da Welles (molto rimaneggiato, apparve nel
1999 ([8]): per
la sua incomprensibilità in Italiano, esso è stato tradotto con La posta in gioco ([9]).
L’anello non è più piccolo ma è grande: dunque è una ricerca, una “quest” per l’eccellenza ([10]).
Che le loro carriere per certi versi siano opposte anche: Welles alla prima regia è in vetta alla cinematografia in termini sicuramente qualitativi, David Bowie deve faticare molti anni prima di un successo “da classifica”.
Opposti, allora, come il 6 e il 9.
Nella stanza degli specchi si svolge una memorabile scena di The Lady from Shanghai diretto e interpretato da Orson Welles ([12]).
A David Bowie, cui è sempre stato stretto (pur se ancora utilizzato – e “autorizzato” – nel recente cofanetto [ Five Years 1969-1973 ] da Ray Davies) il soprannome “camaleonte” ([13]) in quanto questo animale cambia sì, ma non per distinguersi, certo non sono mancate molte personalità di scena e quanto a specchi basti rammentare la famosa immagine riflessa, che non è quella che ad esso si pone di fronte ne The Man Who Fell To Earth di cui Bowie è protagonista ([14]).
Overbudget: il più famoso per David
Bowie fu quello per le scenografie del Diamond Dogs tour. Per Orson Welles essi
non si contano.
I progetti incompiuti di David Bowie sono più semplici da identificare se si procede con un elenco di canzoni registrate e non pubblicate ufficialmente o in alcun modo pubblicate: per tutti valga l’album Toy e gli ultimi cinque demo di cui parla Tony Visconti come possibile seguito di Blackstar ([15]).
Un fratello per Orson Welles, dichiarato schizofrenico: Richard Ives detto Dickie ([17]).
Per entrambi però esso alla fine si rivela non essere altro da sé, bensì solamente l’opera d’arte ultima siccome definitiva e assoluta anche per il suo autore, non pago di tutto quanto egli ha già creato.
In fondo, sia
Welles sia Bowie affermavano la possibilità dell’uomo di essere super, anzi di
poter aspirare financo allo status di
Supergod, ahimè mortale come tutto.
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[2] Paris, Editions La Table Ronde, 2015.
[4] Che risale a quando Bowie era ancora un giovane artista di belle speranze o poco più.
[5] C’era a questo punto una lunga nota fuori testo che ho eliminato, probabilmente l’avrei eliminata comunque.
[6] L’eventuale luogo accidentale di morte diverso per Bowie non rileva in quanto accidentale, appunto.
Rilevano invece le città, opposte fra loro oggettivamente per entrambi e soggettivamente almeno per l’artista britannico. Come ricordai in un vecchio post, Los Angeles è la città che dice “fuck me”, New York la città che dice “fuck you”; ma per Bowie la metropoli californiana fu quasi fatale, mentre Gotham City divenne una sorta di seconda patria.
[7] A meno di addentrarsi nei dettagli cabalistici, non è materia che sono in grado nemmeno di accennare.
[8] https://en.wikipedia.org/wiki/The_Big_Brass_Ring
[9] Si veda il volume contenente la sceneggiatura nella versione italiana: O. Welles, La posta in gioco, Genova, Costa & Nolan, 1989, la spiegazione del titolo alla pagina 10 e anche https://en.wikipedia.org/wiki/Brass_ring.
[10] Invero già nella sua dimensione normale in Inglese si parla di brass ring come sinonimo di primo premio .
[11] Jean Cocteau: “Les miroirs feraient bien de réfléchir un peu plus avant de renvoyer les images” (da Le sang d'un poète).
[13] Tutto nasce con l’uso del termine da parte sua nel testo di “The Bewlay Brothers”?
[14] Regia di Nicolas Roeg e sceneggiatura di Paul Mayersberg (autore anche per Merry Christmas Mr. Lawrence).
[15] Secondo una ben nota teoria, l’ultima canzone (rectius registrazione della medesima) in un album di David Bowie suggerisce lo stile musicale dell’album successivo.
[16] “Bowie’s maternal half-brother, Terry Burns, was a substantial influence on his early life. Burns, who was 10 years older than Bowie, had schizophrenia and seizures, and lived alternately at home and in psychiatric wards; while living with Bowie, he introduced the younger man to many of his lifelong influences, such as modern jazz, Buddhism, Beat poetry and the occult .In addition to Burns, a significant proportion of Bowie's extended family members had schizophrenia spectrum disorders, including an aunt who was institutionalised and another who underwent a lobotomy; this has been labelled as an influence on his early work”.
[17] “From babyhood on, Dickie was treated as a moron, particularly by his father, who mocked his stammer and nurtured an abiding hatred for his eldest son and namesake. Denied the approval – never mind the love – lavished on Orson, who was coddled and groomed as a prodigy, Dickie was eventually diagnosed as schizophrenic. At age 23, they locked him up in not exactly the most comfortable of institutions for the insane and locked up he stayed for ten long years.”
[18] Bowie riferiva il suo interesse per il Terzo Reich anche alle ricerche del Graal portate avanti su ordine di Hitler.
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