ROCK-POP E FRANCIA
(perché in Italia è, o
sembra, più difficile anche suonare e cantare)
“Variété Française”: questa espressione è aborrita da chiunque si
picchi di essere rock, oppure pop, in Francia.
Il che non significa che nei
siti, materiali e non, di vendita di musica (come li si può altrimenti
chiamare?) non si cada nella predetta categoria anche se non se ne è parte, ma l’importante
è non esserlo nei siti Internet e nel giudizio di chi scrive di musica.
Ecco allora l’affrancarsi di
Serge Gainsbourg ben prima di valicare i patri confini e più recentemente di
Alain Bashung da questa scomoda etichetta, cui mai potrebbero essere associati
gruppi come Asphalt Jungle o Metal Urbain, ma che dire di Jacno o dei Telephone
o degli Starshooter?
Continuando ad ascoltare
musica di origine francese ed a leggerne anche, alla fine diviene naturale
domandarsi: perché è più facile emergere fuori dalla VF di quanto lo sia in
Italia fuori dalla “Musica Leggera”?
Una tesi che pare piuttosto
convincente (in effetti non se ne vedono di diverse, con l’avvertenza che si
può nascere rock e finire VF: Johnny Halliday insegna) pur se non così nota è
geografica: fra Francia e Gran Bretagna c’è solo un tratto di mare.
L’argomento “distanza” risulta
molto efficace, perché la
Germania (Ovest) beneficiò certamente di chi, The Beatles e
altri, per taluni periodi suonò nei club tedeschi di città come Amburgo.
In Italia certo jazz
beneficiò “degli Americani” a partire da Chet Baker e questa è un’altra
conferma.
Mezzo secolo e più fa, ecco
allora che la breve distanza consentì di superare la barriera linguistica data
la matrice evidentemente latina anche del Francese; barriera che è usuale scusa
per spiegare perché in Italia è difficile “fare rock in Italiano”.
Se provate ad ascoltare certe
cover di Alain Kan ve ne renderete conto: la musica è riconoscibile ma il testo
pare davvero stravolto.
Per tornare a Gainsbourg, a
parte le sue sortite con testi in Inglese, ci sono alcuni ottimi risultati di
traduzione dal Francese di sue canzoni da parte di artisti come i Placebo ([1]),
dunque il testa-coda vale positivamente in entrambi i sensi.
Inoltre, la dimensione
territoriale quasi adiacente permise anche una più rapida assimilazione di
stili nel settore dell’abbigliamento ([2]):
quanti giubbotti Schott venduti a Parigi, tanto che Perfecto (il modello supremo di leather jacket e vanto del produttore
newyorkese) in Francia è volgarizzato proprio come sinonimo di blouson en cuir.
Né è trascurabile il fatto
che grazie alla assimilazione di generi musicali non propri, assimilazione nel
senso di fruizione oltre che interpretazione, nel Hexagone, la
Francia ha potuto avere concerti da noi inimmaginabili: cito
per tutti quelli dei New York Dolls ([3]), e,
volendo girare un coltellaccio nella piaga, aggiungo Reed, Cale e Nico al
Bataclan o la reunion dei Velvet Underground quasi battezzata a Parigi.
Infine che dire di Iggy Pop
quasi “adottato” ([4]) all’ombra della Tour
Eiffel? Ça marche!
Morale: oggi non ci sono più scuse
per evitare di suonare rock o pop in Italia nella lingua natale, perché le
distanze geografiche si sono fatte ben poco o per nulla rilevanti (conferma ne
sia che – a parte una sorta di endemico difetto di pronuncia sulle “s” – i rapper
italiani infatti ci provano e gli USA non sono dietro casa).
Quindi onore agli incompresi
che ci hanno tentato nei decenni scorsi – e non sto parlando delle cover degli anni sessanta, sentendosi
dire che non erano sufficientemente adatti perché in Italiano non si può
“cantare bene come XXX” (metteteci voi il nome che volete), quindi condannati a
finire ingiustamente nel dimenticatoio.
Ma deve essere buon rock e buon pop, non musica leggera con qualche svisata elettrica tanto
per gradire.
Steg
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2011, 2014 Steg, Milano, Italia.
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consenso scritto dell’autore.
[1]
In parte diverso è l’argomento di
un cantante e autore francofono, ma belga, come Jacques Brel, interpretato con
ottimi risultati con testi in Inglese perché di matrice certamente più
melodica.
Vero è che una splendida “My Death” è interpretata da David
Bowie.
[2]
Chi non capisce il binomio
musica-abbigliamento non capirà mai i giovani, in nessuna epoca.
[3]
Non oso pensare a cosa sarebbe
stata una esibizione delle Bambole in Italia: un fiasco di botteghino e chissà
che assurdità di critiche, anche senza Johnny Thunders con la “swastika
armband” ad adornare il giubbotto di pelle.
[4]
Il che mi permette di ricordare
l’altra tesi, di Derek Raymond (nato Robert W. A. Cook): secondo cui in realtà la Francia avrebbe la
capacità di fare propria ogni persona o cosa proveniente dall’estero senza
modificarne in alcun modo i connotati (si cfr. Derek RAYMOND, Hidden Files, London-New York, Little
Brown, 1992, nel 35° capitolo; in Italiano il libro è intitolato Stanze nascoste), preferibilmente quando
lo straniero conferma il detto nemo
profeta in patria.
Osservazioni interessanti. Non dimenticare però la difficoltà estrema per i parolieri tricolori nel trovarsi a che fare con una lingua pressochè priva di tronche come l'italiano (i francesi non hanno questo problema). Parole piane, sdrucciole e pochissime tronche sentenziano l'amara verità: poche possibilità di tradurre bene un testo in lingua straniera, tout court.
RispondiEliminaIn merito alle buone traduzioni dal francese all'inglese, mi ricordo di un interessante scambio di vedute che ebbi con i Kills sulla loro versione di 'La Chanson De Slogan' di Serge Gainsbourg. Senza avere i problemi di cui sopra, optarono per un 'I Call It Art': non c'entrava assolutamente nulla col testo originale, ma era bellissima comunque. Chi ha ragione?