“OUT IN
CLUBLAND HAVING FUN” ([1])
(a
proposito di un libro sugli “eroi” della notte
di Graham Smith e Chris Sullivan)
di Graham Smith e Chris Sullivan)
Mi è arrivato qualche giorno fa un
bellissimo libro: è più che un piacere quando le aspettative sono confermate o
addirittura superate.
Certo non è ormai più possibile
sorprendersi per tesori da scaffale inattesi ([2]), ma
le delusioni fanno male.
L’ennesima influenza natalizia mi
colpisce nel dicembre 1980, sto preparando Storia del diritto italiano: un misnomer.
Radio Milano International
trasmette fra gli altri: da Sandinista!
di The Clash almeno “The Call Up” ([3]), “Fade
To Grey” debutto (apparente) dei Visage, e “To Cut A Long Story Short” degli
Spandau Ballet ([4]).
Non serve internet, serve The Face - ne acquisto tre copie a
numero: due da ritagliare e una intera, dieta tipografica scellerata ma
necessaria, a partire dall’agosto 1980! - per sapere che a Londra, mentendo
sulla salute ai genitori come capitò nella stessa stagione del 1977 se del caso,
ci andrò comunque. Lì non comprerò l’album (triplo) degli ex (per me) eroi
della Westaway, ma il singolo di debutto degli Spands, l’album dei Visage (dato
che non esiste un dodici pollici del singolo con versione/i diversa/e) e l’inutile
versione 12”
(quella 7”
con custom sleeve dorata è già il winter single dell’anno da un paio di
settimane) di “Israel” di Siouxsie and the Banshees, ma per loro si deroga al
contenuto.
Passati: il punk, il post-punk,
il 1979-mod, lo ska cum eventuale
Trojan skin-suedehead sound, c’è insomma
anche altro.
Ecco perché Sandinista! è vecchio alla nascita pur contenendo talune belle
canzoni.
All’epoca ci fu qualche tentativo
di esaminare questo fenomeno che era in sostanza molto night clubbing e molto apparire, disc-jockey stelle e futuri
artisti ancora in bilico fra pubblico e personaggio dall’estetica variabile.
Ma esso era cosi poco fissabile,
con stili che cambiavano nel giro di qualche settimana (il suicidio della moda.
Eppure emersero anche stilisti su cui si sono in parte fondate le maison per svecchiarsi) che divenne “innominato”,
dunque cult with no name e un volume
a cura di Ian Birch dal titolo The Book with
No Name.
Trent’anni dopo questo “altro” lo
trovate descritto e ben documentato visivamente in We Can Be Heroes, libro scritto nelle immagini da Graham Smith e
nei testi da Chris Sullivan più un numero vastissimo di ospiti.
Faccio come avrei fatto anche
allora, e vi lascio alla ricerca del volume senza altre indicazioni: la
credibilità ce la si costruisce.
È un libro come vorrei averlo
pubblicato io ([5]): con le playlist dei vari club, per cui spero
che Nicola “Plastic” Guiducci lo abbia comprato magari in doppia copia come un
disco che si usura per il tanto ascolto oppure che serve da mixare con se
stesso ([6]) o
come un libro che si squaderna per la troppa consultazione ([7]).
È un libro con anche le foto
delle tessere dei club (la rivoluzione non è popolare: cfr. Billy MacKenzie e
il palazzo d’inverno) come mostrine di corpi d’elite.
È un libro da Tape Art, con
Sergio che all’occasionale e quindi ignoto (imputet
sibi) e potenziale cliente dichiara con ineluttabilità: “ah scusa, ma tutte le copie sono già
prenotate” e poi – bevendo l’aperitivo che arriva dal Bar Quadronno – ride con
te dell’aneddoto.
Quindi è un libro per Fred
Ventura (you like Jimmy Pursey, me like Joe
Strummer).
Proprio un bel libro per tutti
quelli che masticano Animal Nighlife, Pride e concerti dagli inviti monumentali
per le primissime esibizioni degli Spandau Ballet, ma apprezzano anche una rara
foto del novembre 1977 di S&TB al Music Machine con John McKay che indossa
anch’egli una “tits t-shirt” di Seditionaries.
Che serve parlare di me? Beh quel
tuxedo bianco comprato di seconda
mano (King’s Road o Flip?) che inaugurai per Georgie Fame a fine 1980 lo
indossai anche per un concerto dei Funkapolitan nell’estate del 1981 da qualche
parte dietro la fermata di Tottenham Court Road della tube.
In quella stagione calda passavo
da The Cage di Rusty Egan, in King’s Road, per certi singoli.
Ma già ero un vecchio ventenne: i
Theatre of Hate stavano come labaro per un positive
punk che nessuno ancora scorgeva, però anche loro con stile, un po’ hard times (a buon intenditore …), del
resto Kirk Brandon e Boy George erano nello stesso giro.
Comunque fosse, è vero: si poteva
essere eroi.
Steg
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senza il preventivo ottenimento, in ciascun caso, dell’espresso consenso
scritto dell’autore.
[1] Cfr. Soft Cell: “Bedsitter” (M. Almond
e D. Ball).
Si consiglia, ovviamente,
la versione extended.
[2]
L’ultima sorpresa rimane ormai datata: l’aver trovato casualmente un volumetto
sottile, giapponese, che cercavo da molto, nella mensola di un mobile su ruote
da Strand, gigantesca libreria fisica a Manhattan, molti anni fa.
Dedicato a Johnny Thunders
il libro.
[3]
Allora non c’era la schiavitù del singolo nella programmazione radiofonica. Si
poteva osare nel fare ascoltare più canzoni dallo stesso album al pubblico.
[4] Uno
dei più disastrosi cimenti per la pronuncia dei DJ italiani.
[5]
Plurime le edizioni. Giustamente con un ruolo d’onore per i suoi
sovvenzionatori.
[6] Cfr. David Bowie: “I am a DJ/I am what I play” (D. Bowie, “DJ”).
[7] Lo
spirito moderno trova il compromesso fra lo sprezzo del momento e i materiali
delle avanguardie che si trasformano in pezzi da collezione. Non so se sia
possibile mixare i libri oltre il cut-up
burroughsiano.
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