"Champagne for my real friends. Real pain for my sham friends" (used as early as 1860 in the book The Perfect Gentleman. Famously used by painter Francis Bacon)



martedì 27 settembre 2011

STYLE WARS (the right side of my blog series)

STYLE WARS
(the right side of my blog series)

Essendo un sostenitore – per (mia) necessità – del “nulla si ottiene senza impegno”, escludo che lo stile lo si ottenga per caso.

Purtroppo molti pensano che sia possibile comperare lo stile, ed aggravano la situazione reputando il prezzo di un oggetto (essenzialmente capi di abbigliamento, ma non solo) il miglior modo per valutare lo stile ([1]).
Peggio del caso, direi, a meno di ammettere in qualche modo la propria incapacità di avere almeno gusto.

Un altro errore interessante e frequente, più grave forse per gli uomini ([2]), è quello di ritenere che chi produce un buon capo possa essere poi affidabile su tutto.
Così si acquistano senza scrupolo cravatte di una marca di camicie affidabile mentre sarebbero da scegliere le cravatte sin dall’acquisto e non solo al mattino.
Nemmeno sullo stesso tipo di capo ci si può sempre fidare: un modello può essere particolarmente ben riuscito, ma altri no: perché comperare i mocassini di chi produce ottime scarpe foderate e stringate? Né un buon fabbricante di modelli “brogue” diviene una garanzia anche per dei “boot” modello militare in quanto entrambe le calzature posseggono lacci.

La maggiore o minore penetrabilità fra gli stili (il punk fu l’apice delle interferenze) non toglie alla qualità di ciascuno di essi.
Quello mod e quello rocker sono entrambi stili.

Lo stile richiede tempo e lavoro. Naturalmente anche qualche imitazione è ammessa soprattutto per i giovani; però poi occorre camminare con le proprie gambe e capire cosa si sta comperando e come lo si abbinerà.

Altro nemico dello stile è l’eccesso di sicurezza in se stessi, spesso conseguente all’invecchiare.
In questo senso trovo che attualmente Lemmy Kilmister abbia più stile di Paul Weller (un pavone non è un dandy).

E` mia opinione, ben nota, che i manuali di stile servano a pochissimo, spesso sono da impiegare a contrario ([3]).
Anche perché chi ha stile ne è geloso, altrimenti è solamente un vanitoso.

Ci sono comunque libri interessanti che trattano di stili senza volerli insegnare, qualcuno è (o sarà) anche da me elencato.
Possono essere spunti, oppure semplicemente un piacere leggerli.
Ad esempio, quello che ho impiegato come titolo per queste righe è di Peter York, autorevole giornalista britannico.


                                                                                                                      Steg



© 2011 Steg, Milano, Italia.
Tutti i diritti riservati/All rights reserved. Nessuna parte – compreso il suo titolo – di questa opera e/o la medesima nella sua interezza può essere riprodotta e/o archiviata (anche su sistemi elettronici) per scopi privati e/o riprodotta e/o archiviata per il pubblico senza il preventivo ottenimento, in ciascun caso, dell’espresso consenso scritto dell’autore.




[1] Che lo stile non sia sinonimo di eleganza è altra questione.
[2] Concordo con chi sostiene che l’eleganza è maschile, nel senso che non può essere femminile, dato anche l’assunto per cui si ritiene di norma la donna antitesi del dandy.
Il che non rende immune dal mio disprezzo una donna che compera stivali da motociclista realizzati da una maison di moda francese; né per contro esclude l’eleganza di certe mise – con pantaloni – di Marlene Dietrich o di qualche tailleur della giovane Lauren Bacall.
[3] Non è infrequente incontrare in questi libri perle come “lord” Brummell oppure come – la mia tolleranza appare di poco superiore per il fatto che anche in Francia sia termine, erroneo, invalso – l’espressione giacca da smoking per ciò che correttamente deve indicarsi come dinner jacket o tuxedo.

lunedì 26 settembre 2011

YOUNG FLESH REQUIRED (recensione)

YOUNG FLESH REQUIRED
(recensione)

Quando tornai dal mio viaggio a Londra alla fine di dicembre 1977 NON consegnai (eppure gli accordi erano “portaci un libro sul punk che te lo paghiamo”) ai due conduttori di “Sine Ulla Intermissione” la copia di Punk di Julie Davis, avendo già comunque deciso di tenermi il libro di Caroline Coon, 1988 The New Wave Punk Rock Explosion ([1]).

Faccio questa premessa in quanto di fatto i libri già allora contavano come e più delle fanzine, perché essi erano merce rara e in qualche modo, soprattutto già dotati di respiro storico.
Le eccezioni non mancarono, ma si trattava quasi esclusivamente di riviste ([2]).

Fra libri essenziali o almeno importanti sul punk e quanto seguì si arriva almeno ad una dozzina abbondante, e fra essi un minimo di tre ad argomento esclusivo o principale Sex Pistols sono identificabili.


Ed allora nel 2011, a 35 anni dal vero anno del punk, qualche cosa di più ci si dovrebbe aspettare da Young Flesh Required di A. G. Parker “con” M. O ‘Shea in considerazione di quanto già sino ad oggi pubblicato e delle precedenti opere letterarie che hanno pubblicato (particolarmente godibile quella del secondo Only Anarchists Are Pretty).
Nel senso che la bibliografia che lo conclude risulta troppo scarna, per lo meno il volume di Clinton Heylin scritto su NMTBH’sTSP non citato stupisce, per chi sa come si scrivono i libri e si sarebbe aspettato dalla varietà autorevole di fonti (anche periodiche) evocate la garanzia di un lavoro assolutamente accurato.

Lascia a desiderare anche la riproduzione fotografica nel testo di immagini in originale a colori che sono semplicemente sbiadite nel b/n.
Eppure non poche recensioni indicano le illustrazioni fra i punti di forza: per esempio data la rilevanza e la collezione di Parker qualche bella riproduzione di capi d’abbigliamento marchiati Westwood/McLaren non avrebbe guastato.

Un raffronto, immancabile, con England’s Dreaming di Jon Savage (anche in edizione tascabile se si vuole badare solamente al testo) operato su un paio di avvenimenti porta a concludere che mentre il primo ha un respiro più generale e non datato, Young Flesh Required va sul particolare minuto, dunque più un libro per completisti, ma non privo di pecche.

Due errori evidenti sono: le date di nascita di Morrissey e di Siouxsie Sioux, sbagliate (la prima lo ringiovanisce, la seconda la invecchia), e ancora a proposito di Siouxsie and the Banshees indicarli come in concerto al Roxy (cioè The Roxy di Neal Street) il 21 dicembre 1976, mentre il loro secondo concerto fu solamente il 24 febbraio 1977 al Red Deer di Croydon aprendo per Johnny Thunders and the Heartbreakers ([3]).

Lascio per ultimo quello che reputo il difetto maggiore: la discografia è solo quella ufficiale e risulta davvero insoddisfacente dato che di registrazioni semi-ufficiali la storia dei Sex Pistols è colma e talune sono importanti; per di più Spunk ha ricevuto una “canonizzazione” ed è ormai un album assolutamente legale oltre che imprescindibile (pur se i puristi preferiscono la versione semi-legit intitolata No Future UK?) però non è citato.
Ma anche sull’assolutamente ufficiale (perché pubblicato da Virgin e/o EMI) ci sono mancanze, in particolare e soprattutto il cofanetto di 3 CD sostanzialmente senza titolo e noto come Box ([4]).


In conclusione: caveat emptor e un giudizio 3/5.


                                                                                                                      Steg



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[1] Credo si tratti in assoluto dei primi due volumi pubblicati in Gran Bretagna in argomento.
[2] Mi riferisco a Zigzag, qualche anno dopo The Face e Blitz per diversi anni.
Per le fanzine rinvio a quanto ho scritto partendo da Tom Vague.
[3] Argomento verificato sia sul materiale del fan club, sia anche con Billy “Chainsaw” Houlston (che definire responsabile del “Banshees File” è più che riduttivo) personalmente.
[4] Che sebbene fuori catalogo è meritevole di essere cercato (a parte il fatto che discografie con titoli non più disponibili sono quasi pane quotidiano).

venerdì 23 settembre 2011

WHITE TROUSERS - Passion is a fashion?

WHITE TROUSERS - Passion is a fashion? ([1])

Il bisticcio non è voluto, la domanda è: i Depeche Mode sono (talvolta) mod?

L’unica definizione di mod-ism accettabile è quella di Peter Meaden: “An aphorism for clean leaving under difficult circumstances”.

I white trousers, siano essi sta-prest o jeans, hanno tre capisaldi: The Who, The Clash ([2]), i Manic Street Preachers.
Ma Dave Gahan ha indossato in talune occasioni white trousers con profitto.

Ritengo quindi che i Depeche Mode possano in certi casi essere qualificati stilisticamente come mod.

Lo über-mod diventa dandy ([3]), mentre il dandy che sbaglia (forse perché è in crisi esistenziale? Come è noto, il danaro non è barriera assoluta, né per il dandy né per il mod rispetto al loro stile. Ancora Meaden ricordava l’importanza di essere proprietari di un ferro da stiro e della complementare ma necessaria asse) scivolerà nel mod.

Queste considerazioni sono assolutamente sincere, però mi rendo conto che l’argomento stile è molto personale (del resto nessuno confonderebbe George Brummell con Charles Baudelaire quanto ad abbigliamento) quindi mi aspetto molto dissenso.


                                                                                                                      Steg



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[1] Senza il punto interrogativo, si tratta di uno slogan scritto con modalità stencil su una giacca (para)militare indossata da Joe Strummer. Nonostante tutto, credo che la dicitura emotivamente (non grammaticalmente) esatta sia quella indicata da Caroline Coon “Pashion is a Fashion”.
[2] In realtà una lettura attenta della iconografia vestiaria clash-iana dimostra una attenzione maniacale, per cui “fashion can become part of a passion”; non a caso il problema della street credibility è centrale per Joe, Mick, Paul (e Topper) come dimostra già il testo di “Garageland” in cui lo scontro stilistico è fra i “suits” (riferimento a The Jam probabilmente) e “boots” che sono i Doc Marten’s. La svolta USA porta agli “Hudson boots” , etc.
Prima o poi, sarà il caso di scrivere anche sulla santificazione di The Clash in Italia, altra brutta pagina pseudo culturale, sia perché le santificazioni non sono mai positive, sia perché hanno in sé una valenza tardiva che quanto a tutto ciò nato con il punk le rende antistoriche.
[3] Morrissey da anni veste come un tipico cameriere di pizzeria che trascorre le ore libere in sala corse (o altro), salvo per le scarpe che spesso sono quelle “della festa” del pizzaiolo. Si tratta di un fatto, che quindi non implica giudizi negativi sui lavoratori del settore pizzerie, è piuttosto un dato stilistico inoppugnabile.
Ergo: amare Oscar Wilde non rende dandy (e nemmeno – che non è un “almeno” – mod).
Morrissey, comunque, non si è mai vestito con gusto.


                                                                                                                     

giovedì 22 settembre 2011

ROCK-POP E FRANCIA (perché in Italia è, o sembra, più difficile anche suonare e cantare)


ROCK-POP E FRANCIA
(perché in Italia è, o sembra, più difficile anche suonare e cantare)

 

Variété Française”: questa espressione è aborrita da chiunque si picchi di essere rock, oppure pop, in Francia.

Il che non significa che nei siti, materiali e non, di vendita di musica (come li si può altrimenti chiamare?) non si cada nella predetta categoria anche se non se ne è parte, ma l’importante è non esserlo nei siti Internet e nel giudizio di chi scrive di musica.

Ecco allora l’affrancarsi di Serge Gainsbourg ben prima di valicare i patri confini e più recentemente di Alain Bashung da questa scomoda etichetta, cui mai potrebbero essere associati gruppi come Asphalt Jungle o Metal Urbain, ma che dire di Jacno o dei Telephone o degli Starshooter?

 

 

Continuando ad ascoltare musica di origine francese ed a leggerne anche, alla fine diviene naturale domandarsi: perché è più facile emergere fuori dalla VF di quanto lo sia in Italia fuori dalla “Musica Leggera”?

 

Una tesi che pare piuttosto convincente (in effetti non se ne vedono di diverse, con l’avvertenza che si può nascere rock e finire VF: Johnny Halliday insegna) pur se non così nota è geografica: fra Francia e Gran Bretagna c’è solo un tratto di mare.

L’argomento “distanza” risulta molto efficace, perché la Germania (Ovest) beneficiò certamente di chi, The Beatles e altri, per taluni periodi suonò nei club tedeschi di città come Amburgo.

In Italia certo jazz beneficiò “degli Americani” a partire da Chet Baker e questa è un’altra conferma.

 

Mezzo secolo e più fa, ecco allora che la breve distanza consentì di superare la barriera linguistica data la matrice evidentemente latina anche del Francese; barriera che è usuale scusa per spiegare perché in Italia è difficile “fare rock in Italiano”.

Se provate ad ascoltare certe cover di Alain Kan ve ne renderete conto: la musica è riconoscibile ma il testo pare davvero stravolto.

Per tornare a Gainsbourg, a parte le sue sortite con testi in Inglese, ci sono alcuni ottimi risultati di traduzione dal Francese di sue canzoni da parte di artisti come i Placebo ([1]), dunque il testa-coda vale positivamente in entrambi i sensi.

 

Inoltre, la dimensione territoriale quasi adiacente permise anche una più rapida assimilazione di stili nel settore dell’abbigliamento ([2]): quanti giubbotti Schott venduti a Parigi, tanto che Perfecto (il modello supremo di leather jacket e vanto del produttore newyorkese) in Francia è volgarizzato proprio come sinonimo di blouson en cuir.

 

Né è trascurabile il fatto che grazie alla assimilazione di generi musicali non propri, assimilazione nel senso di fruizione oltre che interpretazione, nel Hexagone, la Francia ha potuto avere concerti da noi inimmaginabili: cito per tutti quelli dei New York Dolls ([3]), e, volendo girare un coltellaccio nella piaga, aggiungo Reed, Cale e Nico al Bataclan o la reunion dei Velvet Underground quasi battezzata a Parigi.

Infine che dire di Iggy Pop quasi “adottato” ([4]) all’ombra della Tour Eiffel? Ça marche!

 

 

Morale: oggi non ci sono più scuse per evitare di suonare rock o pop in Italia nella lingua natale, perché le distanze geografiche si sono fatte ben poco o per nulla rilevanti (conferma ne sia che – a parte una sorta di endemico difetto di pronuncia sulle “s” – i rapper italiani infatti ci provano e gli USA non sono dietro casa).

 

Quindi onore agli incompresi che ci hanno tentato nei decenni scorsi – e non sto parlando delle cover degli anni sessanta, sentendosi dire che non erano sufficientemente adatti perché in Italiano non si può “cantare bene come XXX” (metteteci voi il nome che volete), quindi condannati a finire ingiustamente nel dimenticatoio.

Ma deve essere buon rock e buon pop, non musica leggera con qualche svisata elettrica tanto per gradire.

 

 

                                                                                                                      Steg

 

 

 

© 2011, 2014 Steg, Milano, Italia.

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[1] In parte diverso è l’argomento di un cantante e autore francofono, ma belga, come Jacques Brel, interpretato con ottimi risultati con testi in Inglese perché di matrice certamente più melodica.
Vero è che una splendida “My Death” è interpretata da David Bowie.
[2] Chi non capisce il binomio musica-abbigliamento non capirà mai i giovani, in nessuna epoca.
[3] Non oso pensare a cosa sarebbe stata una esibizione delle Bambole in Italia: un fiasco di botteghino e chissà che assurdità di critiche, anche senza Johnny Thunders con la “swastika armband” ad adornare il giubbotto di pelle.
[4] Il che mi permette di ricordare l’altra tesi, di Derek Raymond (nato Robert W. A. Cook): secondo cui in realtà la Francia avrebbe la capacità di fare propria ogni persona o cosa proveniente dall’estero senza modificarne in alcun modo i connotati (si cfr. Derek RAYMOND, Hidden Files, London-New York, Little Brown, 1992, nel 35° capitolo; in Italiano il libro è intitolato Stanze nascoste), preferibilmente quando lo straniero conferma il detto nemo profeta in patria.







 

martedì 20 settembre 2011

SEX PISTOLS: FORZE OSCURE O PER LO MENO PERICOLOSE? (“There is no future”)

SEX PISTOLS: FORZE OSCURE O PER LO MENO PERICOLOSE?
(“There is no future”)






 

We are the forces of anarchy and chaos” si legge in bianco sul grande patch nero della camicia che funge da copertina al mio blog ([1]).

 

Ci sono anche altri slogan su questa “anarchy shirt” di Sex/Seditionaries ([2]), ma questo risalta perché, se si considera un poco di storia del punk britannico, i Sex Pistols si pongono sopra tutti come forza di antagonismo alla società ed alla nazione.

 

C’è quindi un’aura oscura, o almeno di pericolo, intorno ai Sex Pistols che non si rinviene nelle altre band, nemmeno ne The Stranglers risulta cosi accentuata questa forza buia e per The Clash la politicizzazione curiosamente ne stemperò il potenziale effettivamente dirompente in una società come quella d’oltremanica (che a differenza dell’Italia soffriva semmai di guerra civile sottopelle, vedi IRA, ma non di terrorismo eversivo).
Forse è anche questo il segreto del successo di Rotten, Jones, Matlock (e Vicious) e Cook?

 

Delle due parole sopra ricordate, quella più rilevante non è anarchia, bensì caos.
Può spiacere a chi è di fede anarchica, ma l’anarchia non ha avuto particolare presa nel mondo.

 

“Actually, we’re no into music.”, one of the Pistols confided afterwards.
“Wot then?”
“We’re into chaos.”’ ([3]).

 

Ed il caos fine a se stesso, sorta di unica possibile espressione e sfogo di impotenza a cambiare il mondo che li circonda, sono poi le chiavi di comprensione (non di giustificazione) anche del fenomeno hooligan, o delle distruzioni ad opera dei giovani nelle periferie delle grandi città del mondo.

 

Senza riandare alle analisi svolte da Jon Savage in England’s Dreaming (cui appunto si può rinviare ed alla corposa bibliografia che lo accompagna ([4])), è mia opinione che la supremazia dei Sex Pistols sia da ritrovare, anche, nel fatto che a differenza di The Clash loro non hanno mai preteso di offrire una alternativa, ma piuttosto di raccontare atti di distruzione della società che li circondava oppure la autodistruzione terminale della gioventù che li compie (autodistruzione attraverso il passare del tempo e l’arrivo della età adulta).

 

Ecco allora la difficoltà nel cercare di arginarli, la demonizzazione ben rappresentata dalle fiaccolate di sapore “caccia alle streghe” contro le tappe dell’Anarchy in the UK Tour, la coalizzazione intorno alla monarchia nel 1977 contro il punk che “è” i Sex Pistols e il loro blasfemo (ancora) “God Save The Queen”, tanto che la band non può suonare se non in incognito nel proprio paese (perversamente ci sarà un concerto natalizio, l’ultimo “vero” in patria, che ha sapori dickensiani).

 

Certo dopo decenni, e dopo una saga che è terminata il 14 gennaio 1978 a San Francisco, la formazione originale dei Pistols (unica abbreviazione concessa) non morde più e nelle proprie tournée degli ultimi quindici anni può apparire pittoresca come certi artisti che svernano a Las Vegas.

Però in questi mesi che sembrano precedere un winter of discontent 2011/12 – un altro, ben peggiore del precedente – in una Europa che (come titola un corsivo de Il Corriere della Sera di oggi 20 settembre 2011 ([5])) si aggira come uno spettro per il mondo, la musica dei Sex Pistols nelle registrazioni d’epoca suona non datata, vitale e, ancora, pericolosa.

 

 

                                                                                                                      Steg

 

 

 

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[1] Un capo d’abbigliamento che non passa inosservato e probabilmente può considerarsi un pezzo d’arte applicata (come un vestito di più di cinquanta anni fa di Pierre Cardin).
[2] Ciascuna diversa dalle altre: “Among the designs were […] and the Anarchy shirt which used stock from the 60s manufacturer Wemblex. These were bleached and dyed shirts and adorned with silk Karl Marx patches and anarchist slogans”: http://en.wikipedia.org/wiki/SEX_(boutique).
Difficile la datazione, anche se la mia reca l’etichetta della “personal collection” McLaren-Westwood riferita alla fase Seditionaries del negozio.
Gli altri slogan presenti sono:Subversion it’s fun”, “Vision is the art of seeing the invisible”; “Only anarchists are pretty” e, ancora, “chaos”. Causalmente, un due a due per le parole che reputo più importanti tenendo presente che quanto scritto a stencil è più standard degli altri slogan scritti su pezzi di tessuto applicati.
[3] Dalla recensione di Neil Spencer del concerto al London Marquee del 12 febbraio 1976 per il New Musical Express (numero del 21 febbraio 1976).
La frase è stata attribuita (anni dopo) a Steve Jones.
[4] Con un caveat: Lipstick Traces di Greil Marcus (seppure citato rispetto a due argomenti diversi) vuole provare troppo, forse affascinato ancora una volta dalle capacità incantatorie di Malcolm McLaren, dei Sex Pistols e, non lo si dimentichi, di un grande grafico come fu per quel  periodo Jamie Reid.
[5]  Incidentalmente, è ancora oggi che cade il 35 anniversario di un concerto-consacrazione dei Sex Pistols, quello a chiudere la prima serata del “Punk Special” al 100 Club di Oxford Street.
 


venerdì 16 settembre 2011

INVECCHIARE, OMOGENEIZZARE E IGNORARE

INVECCHIARE, OMOGENEIZZARE E IGNORARE

Questi tre verbi credo sintetizzino bene l’indole italiana verso i propri esponenti, indole che conduce – volontariamente o negligentemente poco importa – a dei risultati avvilenti.
È l’opposto di ciò che accade in Francia (e che viene etichettato come grandeur ma in realtà è amor patrio).

Gli esempi sono cosi tanti da trasformarsi in lista della spesa, quindi cito in modo personalissimo e puramente esemplificativo:
-        Fred Buscaglione: una macchietta,
-        Piero Manzoni: meglio ignorarlo,
-        Giorgio Scerbanenco: sottovalutato (molto apprezzato in Francia),
-        Dino Buzzati: ben trascurato per anni (di nuovo molto apprezzato in Francia),
-       Patty Pravo: seppellita quando entrò in una parabola discendente dopo aver venduto, nonostante tutto, milioni di dischi ([1]),
-        Marco Pantani: post mortem con biografo francese, appunto.

Calibri più pesanti? Due per tutti il Futurismo e Gabriele D’Annunzio abilmente etichettati come fascisti senza grandi approfondimenti per decenni.
Ma ci aggiungo anche quegli “imperdonabili” omosessuali (per di più comunisti!) di Pier Paolo Pasolini e Luchino Visconti (il quasi-monopolio felliniano fra i registi mi ha sempre dato fastidio).

Affonda la nazione fra Activia, Danaos, Danacol, Viagra ([2]), immancabili bottiglie da mezzo litro di acqua minerale, Camilleri ed altri autori da pallet di supermarket librari, Gazzetta dello sport, palestre ad usum avventure da una notte, partite a calcetto che strappano i tendini, eccetera.

Per essere giovani in Italia ed apprezzati si deve essere vecchi (i giovani trentaseienni? Per piacere! ([3])), apparentemente eterosessuali, possibilmente sposati e dichiaratamente “credenti” (curiosamente sinonimo di cattolici).
Naturalmente ignorando l’istituto giuridico del divorzio e la legalità dell’aborto (come se le donne si divertissero...); nel senso di far ricorso ad entrambi, ma senza dichiararlo.
Dichiararsi pentiti qualora si siano assunti stupefacenti ([4]).

La statura gigantesca di Fausto Coppi è data proprio dalla sua sregolatezza rispetto al canone ipocrita dell’epoca.

Da neo-vecchi (dopodiché si passa da finto-giovani ad autorevoli-in-eterno ([5])) o da morti sono più facili i successi o i recuperi in ambito nazionale.
Anche l’appiattimento politico facilita le cose.

Tutto ciò ovviamente vale per i coraggiosi che cercano di farsi strada con il proprio talento.
Perché in Italia le doti più preziose per avere successo pare siano un talento modesto e un cognome già conosciuto nel settore in cui si vuole operare.

È evidente che non scrivo nulla di nuovo, ma solo con la coscienza costante della situazione si può cercare di fermare questa discesa infinita verso un pessimo che (contraddittoriamente sotto un profilo linguistico) sembra irraggiungibile.


                                                                                                                      Steg



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[1] Senza blasfemie musicali, e poi da che cassetta della frutta proverrebbero …, lei avrebbe potuto duettare con David Bowie nel 1973/75 con risultati alla Cher.
Del resto, Amanda Lear è ne “The 1980 Floorshow” dell’ottobre 1973.
[2] Per ingentilire questo passaggio ho preferito indicare prodotti anziché patologie/disfunzioni cui sono destinati.
[3] Prendete un’arte che vi piace, poi fate una tavola sinottica non per anni ma per età: senza scomodare Stevie Wonder, considerate ad esempio cosa aveva già “fatto” Boris Vian quando morì a 39 anni.
[4] Fanno riflettere le affermazioni degli invitati al David Letterman Show (mal sottotitolato lo potete seguire su uno dei canali RAI digitali): persino Courtney Love pare più umana quando racconta cosa ha passato per disintossicarsi.
[5] Qualcuno, fuori dal coro, recentemente ha criticato certe traduzioni dall’Inglese nordamericano di Fernanda Pivano. Eccezione, appunto.