"Champagne for my real friends. Real pain for my sham friends" (used as early as 1860 in the book The Perfect Gentleman. Famously used by painter Francis Bacon)



lunedì 30 luglio 2012

PUNK’S DEAD: lo splendido libro di Simon Barker (pre-Bansheeiana)


PUNK’S DEAD: lo splendido libro di Simon Barker
(pre-Bansheeiana)



Di questo libro sono venuto a conoscenza in modo del tutto casuale. Il sito http://www.thebansheesandothercreatures.co.uk/ da mesi non ha notizie di rilievo; d’altronde è difficile portare avanti un sito su un artista, Siouxsie and the Banshees, che non esiste più e i cui componenti fondatori (Siouxsie Sioux e Steven Severin) non hanno grandi progetti in corso.



Sta di fatto che, addirittura, le migliori recensioni di Punk’s Dead ([1]) di Simon Barker sono rinvenibili su due blog ([2]) e, inoltre, sembra che il volume sia uscito mesi prima, anche se la mostra londinese delle foto che ivi contenute sia terminata solo da qualche settimana.



Comunque, questo tomo, che ha anche brevi testi di accompagnamento ai vari capitoli, è sorprendente: a parte la qualità delle foto, tutte a colori (per motivi spiegati dall’autore nella premessa), i soggetti sono quelli che hanno fatto la scena londinese, essendo un pubblico quasi tutto di futuri artisti.
Sembra di leggere/guardare altri libri già letti ([3]) che, però, non avevano o quasi immagini, oppure di scoprire un libro fotografico che doveva uscire più di 30 anni fa ([4]). Si ha quindi un senso di completezza dopo lustri e lustri per così dire “visualmente mutilati”.



Proprio in ragione delle recensioni già esistenti, non ho motivo per tentare di offrirvi esempi delle foto che vi troverete.
Vi basti sapere che una sola immagine di Siouxsie mi ha letteralmente imposto di comprare il libro, indipendentemente dal numero di fotografie dedicate, appunto, ai Banshees “circa and almost always 1977. Ma di loro foto ce ne sono molte, mai viste prima.



Il volume trasuda Bromley (Contigent?), Clothes For Heroes, Antz, etc.
Considerato che Barker fu colui che vide “per primo” un concerto dei Sex Pistols ([5]) e quindi fu la spinta per Siouxsie, Steven, Billy (poi Idol) e altri ([6]) a seguire gli allora sconosciuti Rotten, Matlock, Jones e Cook. Nota “tecnica”: nelle foto di Ray Stevenson dedicate al “seguito bromleyano”, Simon è quello con i capelli biondi.

Un’opera viva come i colori da plastic photocamera che l’ha generata, che nasce dai morti, come ancora spiega Barker.
Non so se sia un libro per giovani, in quanto un retro-gusto e un retro-odore peculiari possono percepirli solo coloro che si ricordano, almeno un po’, il 1977 a Londra.
Caveat: non una foto di Sex Pistols, non una foto di The Clash.

Da sfogliare e leggere preferibilmente ascoltando musica di 35 anni fa, all’occorrenza attingendo anche alle “riserve” del semi-ufficiale.




                                                                                                                      Steg







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[1] Edito da Divus, con sedi a Praga, Londra e Berlino.
[2] Si tratta di http://friedrichstrasse.blogspot.it/ (pagina: http://friedrichstrasse.blogspot.it/2012/06/simon-barker-punks-dead.html) e di http://theworldsamess.blogspot.it/ (pagina: http://theworldsamess.blogspot.com/2012/04/punks-dead-photographs-of-simon-barker.html).
Blog molto diversi fra loro, ma entrambi evidentemente molto interessanti.
[3] Ad esempio i capitoli iniziali di Sex Pistols di Fred e Judy Vermorel.
[4] Per oscuri motivi, i libri “sul punk” salve eccezioni (due o tre) vendono poco, spariscono presto, diventano rari e costosi.
Provate a cercare 100 Nights At Roxy.
[5] Unico errore di Barker nella sua cronaca – riportata da Jon SAVAGE in England’s Dreaming , London, Faber and Faber, 1991, pagina 145 – è il giorno della settimana, un martedì e non un sabato come egli dichiarò.
Il concerto fu quello del 9 dicembre 1975 al Ravensbourne College Of Art di Chislehurst.
[6] Eccezionale il resoconto di Barker contenuto nel volume di Neil e Ray STEVENSON, Vacant A diary of the punk years 1976-79, London – New York, Thames and Hudson, 1999, alle pagine 62 e 63.

ENRICO BRIZZI, BOLOGNA E “COME FUNZIONA IN ITALIA”


ENRICO BRIZZI, BOLOGNA E “COME FUNZIONA IN ITALIA”



Nota per Enrico Brizzi: la “Viking” ([1]) era anche una divisione delle SS, la quinta corazzata.
Ovvero: “non giudicare mai un libro solo dalla copertina/A meno che non ne copra semplicemente un altro” ([2]).



Ricordo che quando uscì il secondo romanzo di Brizzi: Bastogne ([3]), era novembre ([4]) 1996 e la stagione era quindi fredda, anche una libreria non frivola come “la Scientifica” di Milano ne aveva ordinato un mezzo pallet.
Ricordo inoltre come – anno prima, anno dopo –, la galleria Nuages (sempre della mia città), specializzatasi in fumetti organizzò una mostra dedicata ad alcuni artisti facenti rifermento a Frigidaire: c’erano delle signore molto perbene ed evidentemente solventi che pensavano fosse “simpatico” comprare “qualcosa” di Andrea Pazienza magari per una parete della stanza del figlio.
Cosa c’entrano i due aneddoti? Semplice: una vignetta raffigurante Zanardi era l’immagine di copertina per Bastogne, la gente comprava quel romanzo perché avevano letto l’opera (lunga, prima c’era stato un racconto in un’antologia) d’esordio di Brizzi: Jack Frusciante è uscito dal gruppo ([5]) che era stato un successo inaspettato e massiccio.
Naturalmente Zanardi avrebbe rubato i soprammobili più preziosi dalle case delle signore molto perbene, e molti di Bastogne non capirono gran che e ancor meno lo apprezzarono.



Io, che avevo comprato entrambi gli esordi di questo giovane autore in epoca non sospetta, apprezzai ([6]) molto più quel duro (non cupo) e difficile “come un secondo album” romanzo, e anzi mi domandavo in che modo potesse questo giovane nato nel 1974 scrivere come se fosse nato diciamo fra il 1955 e il 1960, dato il numero d’informazioni che dispensava.



Continuo a non impazzire per Andrea Pazienza, eccetto Zanardi, e di Brizzi non leggo opere nuove da moltissimi anni.
Però mi è capitata fra le mani copia, usata, del precitato La vita quotidiana …, che ho letto in rapidità e con alcune riflessioni che mi sono soggiunte.

Innanzitutto Brizzi è un bravo autore.
Per i miei gusti, si è “perso” dopo le sue prime prove. Può darsi invece che, semplicemente, sia diventato adulto evitando il rischio di “scriversele e leggersele” ([7]) in eterno.

Indubbiamente, si tratta di scrittore cui piace sfidare i lettori sulle conoscenze (con me va a nozze) che esibisce nelle proprie citazioni ([8]).
Per converso, però, egli spiega come (ma a me rimane ancora qualche dubbio che sveli tutto) abbia potuto scrivere con tale dettaglio di contesto Bastogne.



Brizzi per quasi tutto il libro La vita quotidiana … dichiara che Bologna è città “femmina” ma alla fine la considera un “paesone”.
Ed ecco il problema: il sistema Bologna è, in ultima analisi, una variante del sistema Italia, nel quale dopo i primi passi autonomi tutti si conoscono e si sostengono a vicenda.
Quindi Bologna diventa una zuppa musicale in cui Brizzi accomuna nei suoi gusti – essenzialmente con cesure rispetto agli artisti stranieri – di tutto: Vasco Rossi con Francesco Guccini, Luca Carboni e i Gaznevada e, rafforzando una mia vecchia opinione, celebrando gli Skiantos sempre dando loro troppa “patente punk”.
Il che probabilmente spiega, anche, il successo di Red Ronnie del quale preferisco non scrivere.

Forse non è un caso se la versione a fumetti di Bastogne è dedicata, anche, a Stefano Tamburini oltre che a Paz.
Ma Brizzi dovrebbe rendersi conto che nessuno di questi due artisti (se fosse vivo) oggi sarebbe nel backstage di Carboni (men che meno in quello di Gianni Morandi).




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[1] Si vedano le pagine 63 e 63 di La vita quotidiana a Bologna ai tempi di Vasco (Roma-Bari, Laterza, 2008), sorta di autobiografia di Brizzi, oltre che storia della città che analizzo in questo post.
[2] “EMI” di Steve Jones, Glen Matlock, Paul Cook, Johnny Rotten.
[3] Edito da Baldini e Castoldi.
[4] L’8 secondo il sito ufficiale dell’Autore: è possibile, una volta i libri spesso uscivano il venerdì.
[5] Del 1994, inizialmente pubblicato da Transeuropa, fra l’altro in una serie di edizioni limitate: con pagine da tagliare ai margini, o con copertine colorate una per una a pennarello.
Per questo editore di Ancona Pier Vittorio Tondelli curò quei tre volumi della serie “Under 25” (visto che i giovani hanno meno di 40 anni?!) da cui emersero, bene o male, alcuni nuovi scrittori di un certo talento.
[6] Certo lo comprai il giorno in cui uscì, in quella libreria, ed era già buio nella sera che cominciava presto.
[7] Parafraso il titolo di un mio recentissimo post.
[8] Dunque scrive sunderbunds e se non sei un salgariano perdi il senso del termine.

mercoledì 25 luglio 2012

CE LE SCRIVIAMO E CE LE LEGGIAMO


CE LE SCRIVIAMO E CE LE LEGGIAMO



Premetto che non essendo un critico letterario, potrò anche scrivere pensieri non completamente originali.



La mia impressione è che ci sia un’inutile tendenza – di cui fanno parte anche i blog ma essi sono meno invadenti – ad eccedere in una memorialistica da minimalisti (o neorealisti) di infima categoria.



Ad esempio, c’è tutta una letteratura, prevalentemente anglosassone (almeno per ora), fatta delle vicende, che possono divenire pregevoli solo se raccontate benissimo, di gioventù modeste e simili a molte altre, ma buttandoci dentro due cosette di musica tanto per attirare i fan di quell’artista (spesso David Bowie).
Insomma roba alla Hanif Kureishi ma tardiva e non scritta benissimo.



Allora occorre cercare di resistere alla tentazione, appunto, di comprare libri dove soltanto si legge quel che potremmo scriverci da soli.



Meglio quelle antologie dove la musica è solo ispirazione o sfondo. Ricordo ad esempio una raccolta di racconti di autori francesi ispirata al canzoniere di The Clash piuttosto godibile.





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lunedì 23 luglio 2012

PERLE MEDIATICHE 8 – IL CORRIERE DELLA SERA E IL PUNK


PERLE MEDIATICHE 8 – IL CORRIERE DELLA SERA E IL PUNK



Nella peggiore delle ipotesi, “il professore incaricato sa 5 minuti prima della lezione ciò che gli studenti sapranno 5 minuti dopo” ([1]).
L’autore di questa mirabile sintesi, da me ([2]) udita nell’autunno del 1979, è ignoto.


Da un giornalista mi aspetto almeno ([3]) altrettanto, studente essendo il lettore e incaricato il giornalista: il secondo si informa per poter scrivere l’articolo che leggerà il primo.
Ma talvolta i risultati lasciano a desiderare.



Trovo questa serie di post noiosa! Financo penosa per me, ma necessaria ([4]).



Allora immaginiamoci che Paolo Martini sia stato richiesto dal suo capo redattore di scrivere il “pezzo” per il supplemento con i programmi televisivi (Sette TV, appunto) di Sette del Corriere della Sera del 20 luglio 2012.
Si badi è l’articolo strillato in copertina: è intitolato “Metti il punk alle olimpiadi” ([5]) e si trova a pagina 3.
Articolo in cui non si dice molto: glielo hanno tagliato? Non si dice molto perché si dovrebbe presumere che lo spunto sia dato dal fatto che “London Calling” ([6]) è la canzone ufficiale delle olimpiadi di Londra (la notizia in rete risulta dell’agosto 2011).
Nulla di tutto ciò, in quanto l’articolo che commento in sostanza è il “corsivo” di un articolo successivo (quanto a collocazione) del medesimo supplemento in cui si ipotizzano, si badi ipotizzano, delle playlist in cui sarebbe inclusa, fra le altre, “God Save The Queen” dei Sex Pistols. Dunque c’è anche un problema di ordine di lettura.



Phew! Cominciamo, sempre indicando in virgolettato corsivo le affermazioni del giornalista.
Siamo dentro il caos”: non vuol dire nulla. Traduzione sbagliata ([7]).
Dato il contesto, la traduzione dovrebbe essere “Siamo dediti al caos” (anziché essere artisti musicali). Come vi è noto, nevvero?, la citazione è tratta dal New Musical Express, siamo nel febbraio 1976.



Ma che “bestemmia”: solo parolacce, stimolate dal presentatore, Bill Grundy, nella trasmissione in diretta dell’emittente London Weekend Television intitolata “Today”, puntata del 1 dicembre 1976.



Prima apparizione in tv”: quando mai? 4 settembre 1976 è la data della trasmissione della loro esibizione nel programma “So It Goes”, registrata precedentemente.



‘“Piccola utopia”’ riferita al punk: virgolette in originale.
Certo: “There is no future/In England today” ([8]): proprio una bella utopia, di cui fare contento Thomas Moore.



Ma ecco, a suggello del tutto, un bel “brodino” tratto dall’altrui traduzione in Italiano del volume Urban Rhythms, di Ian Chambers.
Eppure Jon Savage non risulta sconosciuto nemmeno in Italia; per un maestro di Chambers, volendo, c’è sempre Dick Hebdidge con Subculture del 1979 che ha uno spessore ben maggiore (a mio avviso) di Chambers.



Noi continuiamo, “carinamente vuoti” ([9]) e con massima precisione, dato (anche) che non siamo certo i “tesori della stampa” ([10]).




Come extra, segnalo un bell’articolo di Jessica Bruder, intitolato “Real punk belongs to fighters”, pubblicato sul numero del 9-10 giugno 2012 dell’International Herald Tribune.



                                                                                                                      Steg







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[1] Avendo egli dovuto sostituire senza preavviso l’ordinario nella docenza di una lezione.
[2] Studente al secondo anno della Facoltà di Giurisprudenza, Milano, Università degli Studi (meglio nota come “Statale”). Mio compagno di banco l’anno precedente Tonito.
[3] Perché la produzione di un giornalista è solitamente maggiore di quella di un autore letterario e quindi non gli si chiede uguale approfondimento e studio.
[4] Se penso che non ho “fatto il giornalista” perché non mi reputavo all’altezza di mio padre ...
[5] Papà mi spiegò, erano gli anni della mia scuola elementare, che i titoli non li fanno i giornalisti.
Per un titolo così (ispirazioni possibili due film: Metti una sera a cena; Sbatti il mostro in prima pagina) ci vuole una persona oltre i 60 anni. Largo ai giovani.
[6] Celeberrima canzone che intitola il terzo album di The Clash, di fine 1979. Quindi siamo già oltre il punk, ma appunto la considerazione non rileva.
Peccato che, come si vedrà, lo si scopra dopo data l’inversione nell’ordine naturale di lettura degli articoli!
[7] Senza scomodare Ugo Mursia che si preoccupava anche della quantità delle parole, oltre che del loro significato, traducendo Joseph Conrad.
Incidentalmente rinvio al mio post “Sex Pistols: forze oscure o per lo meno pericolose?”.
[8] Da “God Save The Queen”, di Rotten, Jones, Matlock, Cook.
[9] “Pretty Vacant”, di Rotten, Jones, Matlock, Cook.
[10] “Press Darlings”, di Adam Ant.

venerdì 20 luglio 2012

MARC ALMOND


MARC ALMOND



Il fatto che io non ami molto le esecuzioni dal vivo, anche quando si tratti di Thelonious Monk o di Miles Davis, credo sia una garanzia.
Per Marc Almond posso affermare che talune sue esecuzioni in pubblico sono essenziali.
Ma forse il dettaglio non sorprende se si considera la dimensione eminentemente “da palco” di questo artista, nella quale appena i riflettori si spengono le pietre preziose tornano ad essere solo lustrini.
Il che spiega anche quella fascinazione per la Spagna di Almond: lui ragiona con quella serietà e quella drammaticità di chi si espone alla gloria e al rischio con indosso solo un traje de luces: il torero.
 

Arrivava dal nord Marc Almond, a Londra, insieme al sodale Dave Ball, dopo quel Futurama a Leeds e un EP autoprodotto (raro e molto falsificato) sotto lo pseudonimo collettivo di Soft Cell.
Cosi nel suo bagaglio di note aveva non solo il punk e i suoi post(-umi), ma anche gli echi del Wigan Casino e dei soul boys dalle mani sporche di talco per rotare in pista come dervisci elettrici nella tenebra del fine settimana.



Le illazioni sugli orientamenti sessuali di Marc Almond provvide lui stesso a dissiparle, in maniera sempre più manifesta, man mano che il successo (davvero inspiegabile) del floor filler “Tainted Love” scemava pur rivelandosi un long seller da primato.
Intanto, con il loro manager Stevo i Soft Cell affrontavano schizofrenicamente la scena musicale: album non facili (anche il primo) e singoli da pista da ballo (ma che dire di “Say Hello, Wave Goodbye” o della monumentale ([1]) e totemica “Torch”?).


In effetti, ho problemi a indicare una scelta di partenza al neofita, in quanto almeno una decina di album si presentano siccome imprescindibili ([2]).
Anzi, addirittura la raccolta in triplo CD delle extended version di canzoni dei Soft Cell si rivela importante.


In una visione artistica di kitchen sink drama, Morrissey lascia in sottofondo scontato il fatto che il rubinetto del lavandino sgocciola.
Ebbene Marc Almond riesce – anche – a raccontarvi quel rubinetto. Ma egli riesce, altresì, a rendervi partecipe di serate effimere epperò piacevoli.
Insomma per me (e senza fare paragoni ulteriori) Almond è un artista molto completo capace di avventurarsi in generi che solo la sua voce, che voce!, può affrontare con impegno ma senza timori reverenziali superflui.


Per una volta, mi concedo una sintesi, proprio perché è una contraddizione in termini, ma prevede, appunto, la conoscenza dell’intera sua carriera: se volete ascoltare una sola canzone di Almond (e Ball), allora affidatevi a “Youth” dei Soft Cell, con testo in contemporanea lettura.
Poi ne riparliamo.
 


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[1] È uno di quei casi in cui la versione del 12” è quella che conta.
[2] La campata degli album e dei singoli che si presenta al mio sguardo è impressionante, ma gli scarti sono minimi. In modo assolutamente parziale, rammento per esempio che Open Up All Night del 1999 (ristampato tempo fa in versione di doppio CD) contiene un duetto con Siouxsie. Della sua passione per Jacques Brel già ho scritto.
Purtroppo per il neofita la pletora di versioni disponibili - in quello che rimane il formato di riferimento, il Compact Disc – può sconcertare (più che con The Associates) anche perché la “regola del più recente” – che comunque consiglio di seguire - può confliggere con le scelte dell’artista, che osteggiò alcune riedizioni.

giovedì 19 luglio 2012

JACQUES BREL





JACQUES BREL

 

David Bowie potrebbe - con successo - interpretare, in quantità sufficienti a costituire un album per ciascuno di loro, due autori ed artisti che ha già in passato omaggiato: Scott Walker e Jacques Brel.

Nessuno si stupirebbe per una sua scelta diciamo così riflessiva e pacata.

 

Esiste un album di Walker che semplicemente raccoglie quanto egli ha disseminato nelle sue prime fatiche soliste ([1]) del repertorio del Grande Belga.

C’è un più organico album, dal titolo Jacques, di Marc Almond.

 

In base alla mia teoria per cui gli artisti francofoni sanno creare grandi “cose” e morire anche prematuramente (non di vecchiaia, cioè), Brel muore nel 1978, a sei mesi meno un giorno dal suo mezzo secolo.

Avrebbe potuto creare altri capolavori? Inutile porsi la domanda.

 

Mente brillante, come testimonia l’intervista del 1971 che giustifica l’acquisto di A Knokke, altrimenti un DVD con le troppo brevi riprese di un concerto di otto anni prima.

Della sua complessità umana e artistica testimonia qualsiasi buona biografia di sintesi rintracciabile on line.

 

La prima edizione della sua “integrale” ([2]) del 2003 era contenuta in una suggestiva biscottiera di latta (nota infatti come Boite a bonbons) comprensiva di un CD bonus e un piccolo libro cartonato.

Potete però partire con l’usuale meno impegnativo cofanetto triplo oppure con il successivo doppio CD Infinement che uscì sempre nel 2003.

 

Ma per quale motivo dovreste indaffararvi per conoscere Jacques Brel? Perché sicuramente avete già ascoltato almeno una sua canzone senza saperlo, e vi è piaciuta.

Se poi considerate i tre artisti che ho qui citato come (alcuni dei) suoi interpreti, a meno che (per due) abbisogniate anche di un loro post, il tutto si trasforma in priorità se non in necessità.

 

Avvertenza: la fondazione Brel non è il modo più economico per comprare suoi fonogrammi o videogrammi. Quindi visitate il sito ufficiale, ma aspettatevi di risparmiare se opterete per poi affidarvi a un serio sito commerciale per i prodotti.

 

 

                                                                                                                      Steg

 

 

 

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[1] Questo significa che se avete già tutto di Walker è irrilevante questa antologia che potete costruirvi da soli.
[2] Come sono definiti i cofanetti completi nei paesi di lingua francese. Poco importa che, come testimoniano Gainsbourg e Bashung (per quanto ne so), ad un’integrale possa seguirne anni dopo altra più completa.

giovedì 12 luglio 2012

BIG WEDNESDAY: THE MOVIE


BIG WEDNESDAY: THE MOVIE



Inizio degli scorsi anni ’90: affacciati alla balconata del Rolling Stone di Milano, assistendo a un concerto de The Ramones, non ci sono Matt, Jack e Leroy, ma Tonito, Tiberio ed io. Però per me è chiaro: è (il) Grande Mercoledì e non ce ne saranno quindi altri.
Credo che John Milius apprezzerebbe questo prologo.



Chi si è sentito tradito dal mio post intitolato “Big Wednesday” sappia che il mio era un omaggio attraverso Johnny Thunders, cui si devono alcune splendide versioni di uno dei due sommi “strumentali” della surf music: “Pipeline” (dei Chantays, l’altro è “Wipe Out” dei Surfaris ([1])), all’omonimo film di John Milius.



In Italia, solitamente Big Wednesday è classificato come “di destra” o “politicamente ambiguo”.
Sciocchezze: ragazzi che fanno di tutto per non essere arruolati e finire in Vietnam a combattere, un campione di surf (Matt) che non viene a patti con l’età adulta, un veterano (Jack) tradito dalla madre patria. Che film hanno visto questi critici?
Io gli schieramenti politici li ho lasciati 35 anni fa.


Il capolavoro di Milius è un cult movie per cultori: successivo ad American Graffiti, è del 1978, richiede – appunto – che si apprezzi una certa filmografia sullo star male (e bene) dei giovani di cui non credo di dover indicare le pietre miliari (tanto prima o poi compaiono in questo blog).
Nel 1979 uscirà The Wanderers che è il film ([2]) – data anche una campagna di lancio assurda per sfruttare il successo di The Warriors – meno compreso della decade soprattutto in Italia ([3]).



John Milius, che ricordo essere lo sceneggiatore di Apocalypse Now, dipinge un quadro di bellezza ed imperfezione uniche, da cui nessuno esce bene ma da cui gli eroi emergono senza più complessi di colpa non curati.
Matt, Jack e Leroy hanno il riconoscimento – come tutti quelli come loro dovrebbero avere – di essere stati gli originali mentre Bear ([4]) pare un moderno Omero più scaltro di come lui si dichiari.


Uno dei punti di forza di Big Wednesday è che non può ragionevolmente avere un seguito in quanto esso “finisce con il proprio seguito”.



Sottolineo anche la grande idea di John Milius di non anteporre l’articolo “the” nel titolo: il mercoledì è così di grandezza assoluta ed incomparabile.



La colonna sonora esiste in CD, ma senza le canzoni non originali. Un peccato soprattutto per una shangri-lasiana “Will You Love Me Tomorrow” di Carole King e “Do You Wanna Dance” di Bobby Freeman (ma più nota nella versione de “da brudders” Ramones).



Che fare? Notte insonne e quindi American Graffiti, The Wanderers e Big Wednesday.
In questo ordine.









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[1] Di quest’ultimo mi risulta soltanto una versione live eseguita da Thunders, dunque non era pare del suo – peraltro esteso – repertorio di altrui classici.
[2] Tratto dall’omonimo romanzo di Richard Price, autore abbastanza noto negli USA; il film Clockers di Spike Lee è tratto da un altro suo romanzo.
[3] Caso vuole che nella sua colonna sonora, seppure sia ambientato a New York City, si rinvengano i due surf instrumental sopra citati.
[4] Riduttiva una descrizione di questo personaggio, spiacente.