"Champagne for my real friends. Real pain for my sham friends" (used as early as 1860 in the book The Perfect Gentleman. Famously used by painter Francis Bacon)



giovedì 30 luglio 2015

PERLE MEDIATICHE 36 – APPROSSIMAZIONE, GASTRONOMICA E NAZIONALE


PERLE MEDIATICHE 36 – APPROSSIMAZIONE,
GASTRONOMICA E NAZIONALE

 

Qualche medium è più piccolo di altri, ma resta mezzo di comunicazione.
Pubblicità mediante manifesti, nello specifico quello sulla parete della pensilina della fermata “venendo dal centro” della linea tramviaria 1, a Milano.
 
Lo slogan è “Italy is Eataly”, nella parte bassa la scritta recita: “Piazza San Babila: 700 MQ, 3 restaurants, …” dunque è in lingua inglese.
O meglio dovrebbe esserlo perché “MQ” significa metri quadrati, non “square meters” (o “meter squared”), ma poi chi è di lingua inglese misura in piedi, dunque in “SF”.
Magari, Signor Oscar Farinetti, può interessarle sapere che “1 square meter is equal to 10.7639104167 square foot” e il “.” sostituisce la “,”.
 
Nella migliore delle ipotesi, chi Lei ha scelto non controlla il lavoro degli altri cui è stata delegata la pubblicità, ma il menabò del manifesto chi lo ha composto?
 
Forse ha ragione Lei: approssimativa Eataly e approssimativa l’Italia.
 
 
                                                                                                                      Steg
 
 
 
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Tutti i diritti riservati/All rights reserved. Nessuna parte di questa opera – incluso il suo titolo – e/o la medesima nella sua interezza può essere riprodotta e/o archiviata (anche su sistemi elettronici) per scopi privati e/o riprodotta e/o archiviata per il pubblico senza il preventivo ottenimento, in ciascun caso, dell’espresso consenso scritto dell’autore.
 

LA RIVISTA IDEALE (SAREBBE PERFETTA SE ESISTESSE?)


LA RIVISTA IDEALE
(SAREBBE PERFETTA SE ESISTESSE?) ([1])

 

Da qualche parte in questo blog devo aver evocato la canzone perfetta.
La rivista perfetta è qualcosa ([2]) di più raro e più frequente al tempo stesso dell’altra: essa si ripete, ma il suo contenuto cambia, quindi la sua perfezione deriva dallo stile che essa può avere, quasi l’opposto della canzone la quale può beneficiare o soffrire (e resistere) di più versioni ([3]).

 

Perfetta: solo se ideale? Ovvero: non esistono nella realtà né la canzone né la rivista perfette anche solo per un singolo?

 

Porsi il solo tema (non il “problema”) della testata periodica perfetta può risultare addirittura obsoleto: “vado su internet e trovo tutto”.
Beh trovi quel che cerchi, se lo trovi. Su internet non trovi, sicuramente, quel che non cerchi e cioè quel che spesso è più importante sotto il profilo dell’entusiasmo (emozione che sicuramente fa bene) e della conoscenza (quella può far male, a mio avviso).
Forse trovi quel che non cerchi se ti orienti nell’argomento specializzato, forse.
Nemmeno il sito “profilato” garantisce la sorpresa: stanno appunto facendo un profilo di te, e qualcuno decide cosa ti interessa; con un discreto riutilizzo di materiale altrui, quando va bene diventano rassegne immateriali.

 

Avete mai provato mai a sfogliare una rivista virtuale? L’indice non esiste, al massimo si procede per parole chiave.
In conclusione, si torna alla testata periodica tradizionale, aspetto sempre qualcuno che mi convinca della bellezza tattile di una lettura e una visione di immagini solo elettronica (e la vostra emeroteca, così come la vostra biblioteca, di quanti dispositivi di memoria è composta? Li guardate di costa e li sfilate apprezzandone l’assemblaggio?).

 

Qualche volta mi è capitato di trovare un numero quasi perfetto di una rivista: ho il vago ricordo di una rivista sullo sport del surf contenente un articolo sui Beach Boys, una trentina di anni fa. Non so dove sia la copia, certo è che quell’articolo fu la causa della mia ricerca di Smile. 

 

Poi ci sono le riviste “sperate”: quelle che sembrano ma in effetti non vale la pena di coltivare. Interessante il numero di The Chap (sottotitolata A journal for the modern gentleman) con servizio di copertina dedicato ad Adam Ant, ma davvero occorre abbonarsi?

 

Poi ci sono le riviste “da sostenitori”, cioè quelle per cui decidi di abbonarti siccome introvabili in Italia: per esempio Nude (presto diventata Nude Magazine): pessimo titolo se si cercava il suo sito su internet. Gli argomenti erano i soliti: scrittori dimenticati, artisti musicali negletti, fenomeni che duravano meno della vita di una lucciola, etc.
Comunque ha chiuso i battenti da tempo.

 

E ancora le riviste che erano perfette forse in quanto non esistono più: cito Blitz (rivale di The Face per qualche tempo), per un quinquennio dal 1977 Zigzag, l’esperimento di fumetti e un po’ di musica che fu Deadline (pubblicava Tank Girl).

 

Al momento, non comprando ogni numero bensì scegliendo con metodo, mi appassiono a una sorta di “annual” ([4]): è la francese Schnock – La revue de Vieux de 27 à 87 ans.
Scoperta per caso un paio di anni fa mentre cercavo in rete “novità ed imminenti” pubblicazioni francofone su grandi morti ([5]).
Usualmente decido in riferimento al servizio di copertina poiché sono veri e propri dossier, maniacali e corposi per chi già sa di chi leggerà.
Finché dura, naturalmente, poi di nuovo, parafrasando Africa Bambaataa ([6]): we will be back, looking for the perfect mag.

 

 

                                                                                                                      Steg

 

 

 

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[1] Licenza di titolo: intestare il post “La pubblicazione periodica ideale” lo rende tortuoso.
Peraltro, la parola “rivista” è usata anche nella legge n. 633 del 22 aprile 1941: si cfr. gli articoli 38 e seguenti.
[2] Un’opera musicale è un’opera dell’ingegno, una testata giornalistica invece per lo meno contiene più opere dell’ingegno.
[3] Versioni di interpreti diversi, oppure dello stesso interprete in epoche diverse o in ambiti diversi (dal vivo e in studio) o in momenti diversi della stessa epoca (si pensi alle “complete session” di taluni album (ad esempio: https://en.wikipedia.org/wiki/1970:_The_Complete_Fun_House_Sessions).
[4] Tipo di pubblicazione che era dedicata ad alcuni personaggi dei fumetti e consentiva storie di più grande respiro; ne pubblicavano sia DC Comics, sia Marvel.

lunedì 27 luglio 2015

I PRIMI PERE UBU (l’incubo parallelo del Capitano Achab e di Moby Dick)


I PRIMI PERE UBU
(l’incubo parallelo del Capitano Achab e di Moby Dick)

 

Sui Pere Ubu, i primi, perché dopo il 1978 non trovo stimoli di ascolto, non so e non riesco a scrivere nemmeno un post delle Sketches series.
Qualche frase, al più.
Diciamo che i miei rispetto e soggezione al loro riguardo sono quelli di chi sa che i topi sono nel muro ([1]).

 

La faccia illuminata del buio è la descrizione di “Sonic Reducer”.

 

I compiti credo di averli fatti: a parte Lester Bangs, Clinton Heylin e Jon Savage su di loro cosa si è scritto di davvero rilevante e da chi?

 

I compiti li ho fatti: a causa di Clinton Heylin quel disco con il 7” aggiunto (perché tutto il materiale registrato non ci stava ([2])) dei Rocket From The Tombs lo trovai: si intitola Life Stinks. Dovevo averlo in quanto dovevo ascoltare “Ain’t It Fun” in un’altra versione ([3]).

 

Peter Laughner, Electric Eeels, Rocket From The Tombs.
Il cofanetto in CD dei Peru Ubu intitolato Datapanik In The Year Zero.
Quell’album in bilico fra ufficialità e no intitolato Ubu Unchained ([4]) diviso fra RFTT e PU.

 

Siccome l’equivoco forse ancora prosegue, la canzone “Final Solution” ([5]) è riferita all’opera di Arthur Conan Doyle.

 

La storia è molto più complicata, e quindi probabilmente occorre anche ascoltare: The Electric Eeels, dovrebbe bastarvi l’album The Beast 999 Presents The Electric Eels In Their Organic Majesty's Request; ma forse anche Styrenes e Mirrors per cui potete partire con Those Were Different Times: Unreleased Cleveland Recordings 1973-1976.

 

Ecco vi ho dato qualche punto di partenza.

 

 

                                                                                                                      Steg

 

 

 

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[1] Cfr. Howard Phillips Lovercraft.
[2] Poi parlate male dei CD, mi raccomando.
Il materiale fu poi ristampato nell’album, formato CD, The Day the Earth Met the Rocket From the Tombs.
[4] Altro CD, pubblicato dall’etichetta Punk Vaults.
[5] Ne fece una cover Pete Murphy da solista.

domenica 26 luglio 2015

COMMENTATORI E TRADUTTORI (UNA PARTE TERZA O QUASI)


COMMENTATORI E TRADUTTORI
(UNA PARTE TERZA O QUASI)


Due piccoli eventi, concomitanti, mi inducono a scrivere di nuovo, almeno in parte, sull’argomento traduzioni.


Nella prima libreria (della più famosa catena nazionale di usato e non) visitata lo stesso pomeriggio, trovo una bella copia in prima edizione di New York – Life in the Bic City di Will Eisner, grande fumettista statunitense che fa più fine chiamare autore di graphic novel (andatelo a spiegare ai lettori di Eureka di 45 anni fa…) ([1]). Ma il (o la) precedente proprietario del volume evidentemente ha fracassato i propri denti delle sue velleità e ha deciso di condividere il proprio stato inferiorità per qualche decina di pagine funestando nota introduttiva e alcune tavole con traduzioni e sottolineature a inchiostro.
Non me ne capacito.


Nella seconda libreria della stessa catena, reperisco un volume per cui avevo deciso che non lo avrei mai comprato se non con congruo sconto, anche in questo caso è il 50%: si tratta di The Smiths - A Murderous Desire di Diego Ballani. Non avevo tutti i torti.
Se è vero che si tratta di “testi commentati”, è anche vero che si possono commentare i testi senza tradurli, se si traducono sarebbe gradito non improvvisarsi grandi letterati con doti tali da poter stravolgere il senso originale.
Ad esempio: “It’s time the tale were told” (da “Reel Around The Fountain”) è tradotto “è tempo di raccontare la storia” (p. 18), invece di “è tempo che la storia/il racconto fosse raccontato/a” ([2]); “Of how you took a child/And you made him old” (da “Reel Around The Fountain”), diventa “Di come hai preso un bambino/E ne hai fatto un adulto” (p. 19), invece di “Di come tu prendesti un bambino/E ne facesti un vecchio” ([3]); “I wonder to myself” (da “Panic”) ”(pp. 200-201), diviene “mi domando”, invece di “domando a me stesso” ([4]);


Il risultato mi sembra ancora quello di cui già mi sono lamentato ([5]): se con tutta evidenza in Italia si fatica a imparare o migliorare la propria conoscenza della lingua inglese, si eviti, almeno, di introdurre errori per i lettori che si fidano del traduttore, grazie.



                                                                                                                      Steg




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[2] La gravità del tempo verbale è diversa a seconda delle due traduzioni, ma una delle due non è fedele; inoltre, l’uso del congiuntivo non è più “obbligatorio” nell’Inglese meno formale da molti anni.

[3] Oltre l’inesattezza c’è anche la perdita di una contrapposizione fra fasi della vita, Peter Pan a parte.
[4] Ho il conforto di un I wah-wah-wah-wah-wonder/Why,/Why, why, why, why, why she ran away,/Yes, and I wonder,/A-where she will stay-ay,/My little runaway” (in “Runaway” interpretata da Del Shannon, scritta da Shannon medesimo e Max Crook).

giovedì 23 luglio 2015

TENORE DI VITA (Tombstone series – 22)


martedì 21 luglio 2015

PET SHOP BOYS O DELL’EQUIVOCO ARTISTICO (Sketches series – 22)


PET SHOP BOYS O DELL’EQUIVOCO ARTISTICO
(Sketches series – 22)

 

Il mio primo contatto materiale con i Pet Shop Boys, cioè Neil Tennant e Chris Lowe, lo ebbi nell’estate del 1987 a Dublino: comprai il 12” di “West End Girls”.
Nel corso dello stesso viaggio, a Londra comprai il mio Filofax e vidi, il 25 luglio, Siouxsie and the Banshees al Finsbury Park ([1]).
 
“[W]e were invited to some trendy club in Milan, where they all liked The Cure” dichiara Tennant nell’intervista canzone per canzone condotta da Jon Savage pubblicata nel libretto del doppio album (formato CD, 30 canzoni ([2])) intitolato Alternative. Si era già oltre la metà degli anni ’80.
 
C’è un libro, credo ormai quasi dimenticato, di buon contenuto ma noto ai pochi innanzitutto per il titolo: Like Punk Never Happened ([3]) di Dave Rimmer.
 
I Pet Shop Boys sono un gruppo ([4]) dance per gay”: definizione banale e ignorante.
 
Gli scorsi anni ’80 “ci” hanno dato le riviste musicali con le foto a colori.
È un’affermazione sostanzialmente esatta poiché quasi nessuno di noi conosceva il Tedesco e “guardare le figure” su Bravo o Sounds ([5]) o le sole copertine di Hit Parader e Circus era nulla.
Pioniere fu The Face (1980), sebbene avessimo già dovuto comprare qualche numero di Smash Hits (e sorvegliare Record Mirror, anche) ([6]).
Ebbene Neil Tennant prima di diventare artista musicale a tempo pieno è giornalista di quello Smash Hits che – complice anche “il punk” (inteso come epoca musicale) – era diventato permeabile a certi artisti.
 
Si può durare 30 anni da furbi oppure con la propria intelligenza, con qualche inciampo, anche.
A Tennant e Lowe occorre riconoscere uno staying in power purtroppo mancato ai melodicamente geniali Tears For Fears e – anche  tragicamente ([7]) – a The Associates.
Invero, con un quasi ossimoro preveggente, proprio il successo d’esordio “West End Girls” dichiara “Here today, built to last” ([8]) e sono passati ormai 31 anni dalla sua pubblicazione.
Provate a ascoltare il testo di “Suburbia” ([9]). Altro che dance floor!
Se mi vengono in mente i Soft Cell, non è perché parlo di artisti-in-duo, ma in ragione di quel nord dell’Inghilterra che ha dato i natali a tutti loro (curiosamente Ball e Lowe sono entrambi di Blackpool ([10])) i quali però dovevano “andare a Londra” e, ovviamente, ascoltavano inter alia David Bowie.
 
Per chi c’era dal 1977 ed ancora con occhi ed orecchi aperti dieci anni dopo (e The Cure non li ascoltava più), il conto che presenta “Paninaro” ([11]) va esaminato per bene.
Può essere sgradito, ma d’esportazione nazionale era una style war diagonale, per generazioni e ceto, e quella canzone la ha ben compresa.
Del resto, un capo leggendario di C.P. Company è esibito anche dai Pet Shop Boys: la Goggle Jacket ([12]).
 
La carriera di Tennant e Lowe è lunga (comprende anche un album dedicato alla Corazzata Potemkin), e diligentemente annotata: senza troppo clamore ([13]) hanno raccolto molto di quanto è fuori da “facciate a” e album.
Certo c’è anche il camp, comprensivo degli ammiccamenti gay, ma è solo una parte.
 
Parafrasando Aldo Busi, la musica di genere (come la letteratura di genere) è un àmbito in cui le persone intelligenti non si crogiolano. Quindi i Pet Shop Boys creano musica e basta, che essa piaccia o no.

 

 

                                                                                                                      Steg

 

 

 

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[1] Cosa c’entra? Ritengo che questo sia un “polso globale” della Gran Bretagna, ecco.
[2] Formato CD, perché il CD “è” il formato, spiacente. 
[3] Sottotitolo Culture Club and the New Pop, pubblicato nel 1986.
[4] Invero sono un duo.
[5] Periodico della RFT, non il settimanale britannico.
[6] La mia dieta cartacea a un certo punto era quasi insostenibile, credetemi.
[7] Si sarebbe mai potuta ipotizzare una riappacificazione fra Alan Rankine e Billy MacKenzie?
[8] Anziché “here today, gone tomorrow”, intorno al minuto 3 e 5 secondi.
[10] Blackpool: una località di quelle la cui squadra partecipa a “Giochi senza frontiere”: https://it.wikipedia.org/wiki/Giochi_senza_frontiere.
[13] Quanto hanno dovuto aspettare invece i fan di Siouxsie and the Banshees per il cofanetto Downside Up?

lunedì 20 luglio 2015

ALTRI SUPERFICIALI (Tombstone series – 21)


ALTRI SUPERFICIALI
(Tombstone series – 21)

 

Una nuova categoria (non bastavano le attuali) di superficiali appesta i già tristi mezzi di comunicazione elettronici (quelli cosiddetti “sociali”).
Coloro che a ogni morto scrivono “noooo!” (variante “nooooooooooo”).
Tanto già l’anno prossimo non ve ne ricordate più.

 

Incidentalmente: oggi, 20 luglio, nel 1945 morì Paul Valery, che non sento spesso citare.  

 

Precisazione: il titolo del post suona bene (“ulteriori” sarebbe stato un inciampo), ma “altri” non ha la valenza tondelliana perché il sostantivo che regge non ha un valore positivo, mai.

 

                                                                                                                      Steg

 

 

 

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martedì 7 luglio 2015

GEMELLI E TORI (e stile e diritto)


GEMELLI E TORI (e stile e diritto)

 

I gemelli da camicia sono stati fino a mezzo secolo fa un oggetto ([1]) da grandi, da uomini, che si vedeva nelle case. Nei film qualche personaggio (meglio se il protagonista) chiedeva alla moglie o alla fidanzata di aiutarlo con i gemelli nel chiudere i polsini.
Perché i gemelli sono belli, ma complicati; mentre devo dire che ho sempre considerato l’aiuto con la chiusura loro tramite dei polsini un possibile indice della solidità di una coppia.

 

Anche i tori sono, sicuramente, argomento da adulti, inoltre sono grandi essi stessi come animali.

 

Non siete capitati nello sfogo del tardivo lettore di Ernest Hemingway.
Fra l’altro questo post nasce su commissione e forse lo stile non è del tutto in linea con la spigolosità mia usuale.

 

Anni sessanta del ventesimo secolo: appare nel 1966 sul mercato un modello d’auto particolare, unico, anche se nel breve qualcuno comincio a confondersi e a dire che quella era “l’auto di Diabolik” ([2]) perché entrambe hanno il muso (le auto sono sempre state trattate da animali, al di là del nome dei modelli) lungo. È la Lamborghini Miura.
Se frequenti la scuola elementare la domanda è: “cosa vuol dire Miura?” e all’inizio nessuno sa risponderti. Intanto la Miura diventa popolare, ne producono anche l’automobilina (cioè un modellino giocattolo) e anche un fumetto di quelli che imitano altre imitazioni.
Comunque il mistero è infine risolto: Miura è una razza di tori, molto temibili, che combattono nelle corrida ([3]).

 

Poi delle due l’una, quando cresci: o ti interessano o non ti interessano i gemelli, idem per i tori e soprattutto per la corrida e i Miura.
Sì, certo, capita anche di scoprire che Hemingway ha scritto del secondo argomento.

 

Come mi sono lamentato altrove ([4]), l’uso dell’espressione “brand” anziché di marchio da parte degli Italiani mi infastidisce: si marchia il bestiame, tori compresi, ma evidentemente qualcuno gradirebbe essere marchiato a fuoco (pagando) con il segno di un qualche stilista.



Sono passati molti anni da quando Ferruccio Lamborghini e un erede della famiglia Miura vennero quasi ai ferri corti per l’uso non autorizzato del nome da parte del costruttore italiano; ora il marchio grafico della ganaderia più famosa del mondo è diventato anche una piccola linea di prodotti e convive con il leggendario modello d’automobile.

 

Con fatica, sono riuscito a comprare un paio di gemelli Miura: argentati ma con una patina quasi di vecchio, la stanghetta centrale leggermente curva ricorda il ferro da marchiatura in quanto su un lato termina con lo stesso stemma Miura usato per i capi di bestiame dell’allevamento sevillano ([5]).
Non fatevi venire strane idee: di Miura ce ne sono due, tutto il resto è contraffazione anche se contraffare un toro non è così semplice.

 

 

                                                                                                                      Steg

 
i gemelli della Ganaderia Miura
(ormai fuori produzione)

 

 

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[1] Letteralmente una coppia, ma un gemello da solo fatica a diventare spilla da occhiello da bavero di giacca maschile
[2] Non lo è: il Re del terrore, e talvolta Eva Kant (non ricordo se lo abbia mai aiutato con i gemelli), guida una Jaguar E type. 
[3] http://uominiemotori.tumblr.com/post/57802009291/miura-la-genesi-del-toro.
[5] Nella località di Lora del Rìo.