"Champagne for my real friends. Real pain for my sham friends" (used as early as 1860 in the book The Perfect Gentleman. Famously used by painter Francis Bacon)



martedì 26 febbraio 2013

I GIOVANI DEVONO ESSERE SOCIALMENTE SCORRETTI E CAPACI DI ESPRIMERSI CORRETTAMENTE (Sniper series - 10)


I GIOVANI DEVONO ESSERE SOCIALMENTE SCORRETTI

E CAPACI DI ESPRIMERSI CORRETTAMENTE
(Sniper series - 10)

 

Ho visto su un telo protettivo di una impalcatura per lavori edili sulla facciata dell’edificio ospitante l’Università degli Studi di Milano la seguente scritta a vernice, di mano evidentemente giovanile: “Liberi/e tutti/e”.

 The strength of the ITALIAN nation DOES NOT lie in the arms of its youth” ([1]).

I giovani non devono essere socialmente corretti, ma devono conoscere la grammatica e la sintassi ([2]).

 

 

                                                                                              Top Shooter

 

 

 

© 2013 Top Shooter
     © 2013 Steg, Milano, Italia.
Tutti i diritti riservati/All rights reserved. Nessuna parte di questa opera – incluso il suo titolo – e/o la medesima nella sua interezza può essere riprodotta e/od archiviata (anche su sistemi elettronici) per scopi privati e/o riprodotta e/od archiviata per il pubblico senza il preventivo ottenimento, in ciascun caso, dell’espresso consenso scritto dell’autore.



[1] L’espressione senza le parole maiuscole da me aggiunte e con - evidentemente - “lies al posto di “lie” era uno slogan del negozio d’abbigliamento Boy, a Londra, nel 1977.
[2] In Italiano il plurale si declina al maschile se anche uno solo degli elementi è maschile.

martedì 19 febbraio 2013

TOMBSTONE SERIES - 2


TOMBSTONE SERIES - 2

 

Sarebbe bello poter andare ancora in moto anche senza casco, e non sentirsi mortificati ma, al massimo, più mortali.

 

 

                                                                                                                      Steg

 

 

 

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IL FAZZOLETTO NEL TASCHINO DEL BLAZER (suprema metafora intellettuale dell’originalità)


IL FAZZOLETTO NEL TASCHINO DEL BLAZER
(suprema metafora intellettuale dell’originalità)

 

Premessa: ho avuto la fortuna di avere un nonno sarto ([1]): quindi che i bottoni dei polsini delle giacche fossero slacciabili mi era noto, che si potessero slacciare lo imparai verso gli 11 anni, quale bottone slacciare lo scoprii verso i 14 anni.

 

Finché la mente regge si impara, ma ci sono dei tempi di apprendimento.
Se a 50 anni scopro “96 Tears” ([2]) rimango una persona modesta in termini di conoscenze musicali post seconda guerra mondiale.

 

Come per il fazzoletto, bianco, nel taschino (breast pocket) del blazer ([3]): un giorno, verso i 16-18 anni lo scopri e puoi, senza essere oggetto di dileggio, pensare di aver inventato qualche cosa in senso assoluto.
Quindi apprendi che devi avere due fazzoletti: quello posto nel taschino della giacca (che prima o poi sarà anche quella di un abito) non lo si usa mai.
Poi ... Beh la strada dell’eleganza non finisce mai, certo è utile concludere presto che i manuali di eleganza li scrivono persone poco eleganti.

 

È un ottimo strumento intellettuale il ragionamento sul fazzoletto nel taschino del blazer: riesce a farti stare con i piedi per terra e riflettere.
Quando pensi di essere originale, domandati chi fu il primo a mettere il fazzoletto nel taschino della giacca, che probabilmente era blu e lo stile lo dettava ancora George (non lord) Brummel ([4]).

 

 

                                                                                                                      Steg

 

 

 

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[1] Dei mie nonni magari scriverò un’altra volta.
[2] Di ? And The Mysterians.
Spesso la si scopre in versione cover: ne rammento quella dei Suicide e quella dal vivo di The Modern Lovers.
[3] Gentile lettrice rara, dotata di senso dell’eleganza come Marlene Dietrich, per favore dimmi l’equivalente femminile.
[4] Quello delle tasche, poi, è un argomento ancora più complicato: ad esempio che dire della ticket pocket? Solo nelle giacche o anche nei capospalla.

TOMBSTONE SERIES - 1


TOMBSTONE SERIES - 1

 

Non sono mai andato a un concerto “per divertirmi”.

 

 

                                                                                                                      Steg

 

 

 

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sabato 16 febbraio 2013

IL BLOG TRAVESTITO DA LIBRO (Sniper series - 9)


IL BLOG TRAVESTITO DA LIBRO

(Sniper series - 9)

 

Di regola diffido di qualsiasi opera letteraria attuale, cioè nuova, venduta ad un prezzo superiore a 10 centesimi a pagina.
 
Ma forse c’è una nuova insidia: il blog travestito da libro.
 
È stato pubblicato nel febbraio 2013 Siamo nella merda, di Paolo Villaggio ([1]).
Anche se l’editore è Mondadori e non una stampante a casa dell’autore, il libro è soltanto una raccolta di post - anzi di grandi tweet, perché siamo quasi a battute allungate (non discuto della bontà del loro contenuto) non degne di essere aforismi, senza titoli - nemmeno corredata da un indice, nulla!, tratta dall’inesistente blog dell’autore.
Troppo comodo ([2]).
E poco importa se esso si può trovare nuovo con il 40% di sconto.
 
Ennesima “perla” nel mondo dell’editoria italiana, che fatica e propone spesso volumi sempre più cheap per contenuti o veste editoriale (non copertine ma loro struttura) e si inventa le promozioni editoriali con il 25% di sconto,  dopo avere per anni osteggiato gli sconti liberi dei librai.
 

 

                                                                                              Top Shooter

 

 

 

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[1] Nel suo complesso apprezzo Villaggio, a parte forse una certa escatologia nei titoli, la sua autobiografia del 2002 si intitola Vita morte e miracoli di un pezzo di merda, e certa ripetitività (necessaria?) biografica nella successiva Non mi fido dei santi del 2011.
[2] Pensare che ai tempi si vociferava che il doppio album Stage di David Bowie fosse il modo per “completare” i suoi obblighi contrattuali con RCA.

giovedì 14 febbraio 2013

SOLTANTO GENZALE (just like Johnny Thunders)


SOLTANTO GENZALE
(just like Johnny Thunders)
 
Per Johnny Thunders ho una sorta di deriva non completista, bensì da studioso o da “discepolo musicista non praticante” (io ho una Rickenbaker nera, bellissima, che non so suonare).
 
Non mi picco di avere tutto ([1]), ma cerco di capire la sua essenza.
 
Sono anni che manco da NYC, l’ultima volta mi feci fare una foto sotto l’insegna di GEM SPA.
Volevo quella foto, non intensamente ma costantemente, da molto tempo.
Anche perché quella insegna è destinata a sparire (c’è ancora?) eppure essa anche se non è l’originale vale più dell’intero CBGB’s e della back room del Max’s Kansas City.
Sotto di essa stanno le New York Dolls e certo il mondo si divide al solito in due, anzi si divide in due un pianeta cosi piccolo che veramente si fa élite nella élite: GEM SPA lo trovi da solo o niente, sai cosa è o niente, capisci cosa è o niente.
Respirare l’aria di GEM SPA è un privilegio. Se state già correndo su Internet avete perso, piuttosto lasciate un commento e mostrate le vostre credenziali.
Un giorno passi di lì, alzi gli occhi e dici: “ah, è qui!”. Quel giorno per me fu nel 1986, eppure ci ero già passato anche in precedenza, ma non avevo notato quell’insegna.
 
Johnny Thunders è racchiuso tutto nella prima edizione della sua biografia, scritta da Nina Antonia: In Cold Blood ([2]). La prima edizione, non la successiva.
È uno di quei rari volumi che sfogli sapendo che in una riga trovi sempre qualche cosa di nuovo. La discografia svela album non ufficiali che promettono meraviglie o anche solo copertine per cui devi averli quei pezzi di vinile.
 
Johnny Thunders è lo sporco sotto le sue unghie, un premolare superiore mancante in una foto, la Gibson Les Paul Junior che ruggisce sicura più dell’opulenta White Falcon della Gretsch ([3]).
In un inizio-già-fine la foto in esterno del 1973 di lui seduto sugli scalini con un nido di corvi come pettinatura e i platform boot destinati a caracollare.
 
Johnny Thunders: una contraddizione in termini.
Protopunk axeman, ma maestro di antiche cover: “Pipeline” e “Wipe Out”.
Piccolo sciamano elettrico dalle versioni acustiche insuperabili.
 
Un figlio di New York che in patria non fu profeta.
 
Johnny Thunders è come la vittima di un incidente stradale che si trova su un’ambulanza che subisce un altro incidente. Nessuna speranza.
I testi delle sue canzoni non lasciano vie d’uscita.
 
Se qualcosa poteva andare male a qualcuno, andava male a El Thunders.
Tanto che è sua l’elegia funebre più significativa per Sid Vicious: “Sad Vacation”. Mentre una bella pagina su John Anthony Genzale, Jr. la scrive, alla sua morte, l’amico/compagno/rivale Richard Hell.
 
La mia copia originale (1977) dell’album di (The) Heartbreakers ([4]): L.A.M.F. ([5]) mi fu venduta da Tonito.
Alla fine del 2012 è uscito un cofanetto in formato CD, quadruplo, che si dichiara definitivo nel rappresentare quel disco e forse lo è pur se non completo.
 
 
                                                                                                                      Steg
 
POST SCRIPTUM
Data la celebre visibilità dell’artista, e anche per augurare (perché no?) un grande successo a un coraggioso regista, aggiungo tre film alla storia di Mister Genzale.
Il primo è il leggendario, invisibile quasi quanto uno Stealth, Born To Lose The Last Rock n Roll Movie di Lech Kowalski. Dopo anni e anni sono riuscito a trovarne una buona copia in DVD anche se ufficialmente non è mai uscito in quel formato (o in altri), ma è un animale raro in certi festival cinematografici. Crudissimo, ma necessario.
Poi c’è la sorpresa, in quanto meno conosciuto anche nel solo titolo, di Mona et moi di Patrick Grandperret, pubblicato in DVD.
Infine, dai vari trailer disponibili promette molto bene – anche se gli intervistati portano le cicatrici della vita – il documentario di Danny Garcia (ma essendo di Barcelona forse nasce Daniel?) teoricamente in uscita nel maggio 2014: Looking For Johnny The Legend of Johnny Thunders.
Buona visione, dunque.
 
 
                                                                                                                      Steg
 
 
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[1] Sebbene abbia molto, soprattutto in CD, ma quelli autografati da lui (ne ho riprodotto qualche copertina sul blog) sono degli album in vinile: quando nessuno li considerava, ora sono delle rarità: da morti tutti si apprezzano.
[2] Sembra un libro scritto su un morto, anche se lui non lo è: siamo nel 1987, muore nel 1991, il 23 aprile.
[3] A Manhattan, quando passavo per la 23rd Street per andare a mangiare, osservavo sempre le chitarre elettriche nella vetrina di un negozio di strumenti musicali strategicamente ubicato a qualche metro dall’ingresso del Chelsea Hotel.
[4] Senza il “The” sulla copertina, ma con il “The” nelle pubblicità dell’epoca.
Col passare degli anni l’album è stato attribuito a Johnny Thunders and the Heartbreakers.
[5] Esiste un solo, vero, album degli Heartbreakers, tutto il resto è altra cosa.
Il fatto è che molte delle sue versioni (o dovremmo chiamarle varianti?) si intitolano allo stesso modo: L.A.M.F., cioè Like A Mother Fucker.

giovedì 7 febbraio 2013

BOB DYLAN E DAVID BOWIE: DI ARTE PITTORICA, DI ARTE E DI ARTISTI (e di docenti universitari)


BOB DYLAN E DAVID BOWIE:
DI ARTE PITTORICA, DI ARTE E DI ARTISTI
(e di docenti universitari)
 
Non siamo di fronte a una vera e propria perla mediatica, ma a una forzatura mediatica, o almeno io la vedo così.
 
Il Professor Vincenzo Trione scrive nel suo articolo pubblicato a pagina 25 de La lettura di 3 febbraio 2013 che Bob Dylan e David Bowie siano trattati “da veri pittori” solo perché celebrità. Tralasciando titolo, occhiello e sommario dell’articolo (che si sa possono non essere creati dall’autore dell’articolo): cito, a titolo indicativo: “il drammatico passaggio dall’autorità alla celebrità”, “musei […] condannati a profanazioni sistematiche”, “Dylan è un pittore quasi del tutto privo di talento”, David Bowie sarebbe “[p]ur privo di abilità pittorica” ([1]).
 
Io faccio sempre le mie ricerche, perché diversamente accade che un giorno arriva uno che si firma Steg e fa le sue osservazioni. Appunto.
 
Il Victoria and Albert Museum di Londra è suddiviso “into four Collections departments, Asia; Furniture, Textiles and Fashion; Sculpture, Metalwork, Ceramics & Glass and Word & Image” ([2]). Perché esso è essenzialmente un museo di arte decorative e design (e “costume” in senso ampio).
Il Palazzo Reale di Milano è la sede di mostre prevalentemente a matrice artistica “alta”, pur se ricordo che esso ospitò in tempi recenti una mostra dedicata a Vivienne Westwood, stilista di moda (o rivoluzionaria della moda?).
 
Il V&A Museum ospiterà a breve una mostra “su” David Bowie, non solo “di” David Bowie, per la precisione (l’articolista si sofferma poco su questa circostanza, anche se curiosamente non è riprodotta con l’articolo alcuna opera pittorica bowiana, mentre per Dylan sì).
 
Dunque le mie obiezioni al Professor Trione ([3]) sono di due tipi: oggettive e soggettive.
 
Da un lato almeno (almeno) quanto a David Bowie il suo dolersi (scandalizzato, stizzito?) perché vengano offerti spazi museali ad opere di questi due “artisti interpreti esecutori” (ma pur sempre artisti: come sancisce l’articolo 80 della legge n. 633 del 22 aprile 1941 ([4])) non colpisce nel segno in quanto il museo intitolato alla più longeva regina (o dovrei scrivere imperatrice?) britannica è appunto rivolto anche a questo tipo di mostre.
 
Dall’altro, non si vede per quale motivo un artista nell’ambito musicale non possa esprimersi anche in un’altra arte, e qui ricordo che sia Dylan sia Bowie sono anche autori e/o compositori di molte delle opere musicali che interpretano, quindi in fondo già due volte artisti ([5]).
 
Natürlicher dell’interesse di David Bowie per die Brücke (movimento pittorico tedesco nato a Dresda nel 1905 ([6])) il Professor Trione nulla dice.
E quanto a Bob Dylan pittore, francamente non ho proprio capito perché non possano interessare al pubblico i suoi quadri.
 
Mi piacerebbe, anche, sapere cosa ne pensa il cattedratico dello IULM delle performance musicali di cui all’album fonografico Le stelle di Mario Schifano.
 
In conclusione, ritengo che l’articolo si risolva semplicemente in un forzoso tentativo di sostenere, senza argomenti convincenti, una tesi critica negativa nei confronti di due artisti che hanno una statura tale in ambito musicale per cui chiamarli celebrità è quasi un insulto.
Che poi Damien Hirst sia gradito all’autore dell’articolo, non mi sembra sufficiente per sostenere validamente le opinioni dell’accademico italiano.
 
Evidentemente, sarò lieto se il Professor Trione vorrà commentare in questo blog la mia opinione.
 
 
 
LUNGO POST SCRIPTUM: ARTISTI E CRITICI
 
Ho cercato, vanamente, su internet, “la” (o una) dichiarazione di Damien Hirst secondo la quale David Bowie non sarebbe un artista. Non la ho trovata.
In compenso, mi risulta che David Bowie, come facente parte del “board” di Modern Painters , abbia intervistato nel 1996 Damien Hirst. Fra i suoi intervistati di quella decade ci sono anche Balthus, Jeff Koons e Julian Schnabel.
 
Da un articolo del New York Times ([7]) comprendo il probabile equivoco: in lingua inglese si preferisce riservare la parola “artist” per le muse visive tradizionali (pittura e scultura, cioè): ecco infatti l’incipit: “This is the first in an occasional series of talks with people who, in one way or another, have a special connection to art but aren’t (primarily) artists themselves: writers, musicians, scientists, politicians, collectors”.
 
D’altronde, nel 2012: “When Damien Hirst was looking though his archive recently, in preparation for his forthcoming retrospective at Tate Modern, he came across some film footage of an interview he did with David Bowie in the Gagosian Gallery in New York in 1996. ‘I’m sitting on a big ashtray talking bollocks,’ says Hirst, laughing. ‘At one point, Bowie says, “So what about a big Tate gallery show, then?” And I say, “No way. Museums are for dead artists. I’d never show my work in the Tate. You’d never get me in that place.”‘. L’articolo prosegue: “He grins ruefully and shakes his head. ‘I was watching it and thinking, “Jesus Christ, how things change.” Suddenly, I’m 46 and I’m having what they call a mid-career retrospective. It doesn’t seem right somehow.”‘” ([8]).
 
Se cercate notizie in Internet, scoprirete che Hirst e Bowie hanno collaborato alla creazione di alcuni dipinti.
 
Sul concetto di “artista” può incidere il fatto che Hirst abbia collaborato alla fine del 2012 con le gemelle Mary-Kate e Ashley Olsen (due “fashionista”) per creare una borsa (in 12 esemplari) dal prezzo al pubblico di 55.000 dollari ?
 
Nel frattempo la mostra “David Bowie is” ha collezionato a Londra 312.000 visitatori, oltre 47.000 sono le copie vendute del catalogo. La mostra sarà quindi allestita a Toronto, poi nel 2014 (etc.) San Paolo del Brasile, Chicago, Parigi e Groningen.
Un album di successi di Elvis Presley si intitola: 50,000,000 Millions Elvis Fans Can’t Be Wrong
 
Per ora, invece, nessuna nuova dal Professor Trione.
 
 
                                                                                                                      Steg
 
 
 
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[1] In parentesi quadre rispettivamente puntini di sospensione per mantenere vicini soggetto e verbo, la lettera “p” da maiuscola.


[2] Lo dichiara Wikipedia in una voce talmente articolata che per me va bene, anche a motivo del fatto che questo museo lo ho visitato sempre in occasione di mostre appunto riferite a moda, parola ed immagine.


[3] Nato proprio nell’anno in cui fu pubblicato quello che, comunque, è ritenuto l’album più importante nella carriera di David Bowie: 1972, The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars.


[4] Per quel che concerne l’Italia, lo stesso è anche per le altre legislazioni in tema di diritto d’autore così come per quelle che si occupano di copyright.

Con buona pace di Damien Hirst che forse non è un giurista e quindi taccia David Bowie di essere solo un musicista (ma chissà la citazione esatta, in Inglese, come suona).


[5] Ancora la legge n. 633 del 1941 al proprio articolo 1 riunisce sotto l’espressione “opere dell’ingegno” sia quelle in ambito musicale, sia quelle dell’arte figurativa, eccetera.


[6] Rinvio al catalogo collettaneo Brücke La nascita dell’espressionismo, Milano, Mazzotta, 1999.

Il riferimento è importante rispetto agli anni berlinesi di Bowie e Iggy Pop.


[7] Del 14 giugno 1998 a firma Michael Kimmelman. La serie si intitola: “Talking Art With”, il primo intervistato è, appunto, David Bowie: “David Bowie; A Musician's Parallel Passion”.


[8] Sean O’Hagan, The Observer, 11 marzo 2012.

mercoledì 6 febbraio 2013

“WILD THING” (dispacci dall’aldilà - 1)

 

“WILD THING”
(dispacci dall’aldilà - 1)
 
Il 4 febbraio 2013 è morto Reg Presley.
No, nessun grado di parentela con Elvis Aaron di Tupelo, ma il cantante di The Troggs (all’anagrafe Reginald Maurice Ball).
 
Ovviamente si annaspa per ascoltare subito “Wild Thing”, canzone ([1]) che ho scoperto più di 35 anni fa su una bislacca antologia vinilica del Grande Seattleiano Jimi.
 
Si fatica: viene in soccorso una davvero scarburata epperciò splendida versione di Jeff – racing green Fender strings – Beck.
Si rinviene l’originale (tanto che si sfuma una versione dal vivo in Giappone, seppur pregevole, de The Runaways di Messer Kim Fowley da Los Angeles): si inserisce l’anello ripetitivo, dopo tre passaggi si può cominciare a pensare.
 
Ma la sorpresa arriva da quella versione apparentemente scarna, ascoltata cento volte e non esagero, quando usci l’eponimo EP (non gioco con le parole) Wild Things by The Creatures ([2]).
Quelli di Budgie sulle percussioni sono sicuri magli al cui confronto anche la ritmica granitica di Moe Tucker pare esitante, ma è la voce di Siouxsie Sioux, netta e profonda, ad inchiodare alle proprie responsabilità affettive l’ascoltatore.
 
Viva Reg Presley e viva The Troggs!
 
 
                                                                                                                      Steg
 
 
 
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[1] Non è un “originale”: la scrisse il fratello dell’attore John Voight: Chip Taylor.


[2] Le mie copie sono più di 3, a che serve contarle?