"Champagne for my real friends. Real pain for my sham friends" (used as early as 1860 in the book The Perfect Gentleman. Famously used by painter Francis Bacon)



lunedì 24 febbraio 2014

RANK XEROX E RANXEROX (ancora su Stefano Tamburini, e su Tanino Liberatore)



RANK XEROX E RANXEROX
(ancora su Stefano Tamburini, e su Tanino Liberatore)



Anche oggi, 23 febbraio 2014, è facile fare i carini e illudersi “con quelli corretti”: Ornella Vanoni ha 80 anni e di Hugo Pratt non ci direbbe nulla di male.
Corto Maltese è un gran figlio di buona donna, ma non sembra.
Chiaro il segnale?

 

Provate ora a dire bene del Coatto sintetico con il cervello di una fotocopiatrice, novella creatura di un Barone Victor Frankenstein ([1]) che era non un nobile, bensì un giovane adiacente agli studelinquenti ([2]): Stefano Tamburini.

 

Dando a Cesare ciò che è di Cesare, e quindi anche al grande abruzzese (il terzo dopo Gabriele d’Annunzio e Ennio Flaiano) Gaetano “Tanino” Liberatore i suoi meriti, possiamo concludere che Tambura e Tanino sono stati dei Prometei del ventesimo secolo?

 

Ore fa, proponevo a Michele Mordente (scrivendoglielo), per anni inesausto esecutore artistico di Steve Tamburo, di editare le storie di Ran(k)Xerox annotandolo come accadde dal 1969 e per qualche anno con fortuna decrescente per alcuni romanzi di Emilio Salgari per iniziativa e cure di Mario Spagnol.
Fatica inutile, ma alla quale mi dedicherei volentieri.
 
Quarti d’ora prima, infatti, riguardavo grazie a un DVD artigianale (ricevuto troppo tempo fa da Mordente) un Tamburini ancora vivo nella trasmissione televisiva RAI (3, Campania) intitolata “Sulla carta sono tutti eroi”.
E a parte lo Schifano (Mario) ormai noto, riemergeva il ballardiano Crash che certo non è gradevole, ma è vero, jamesdeaniano e comprensibile (se non anche condivisibile, ma se lo è per alcuni ne prendo atto e basta).
Apparivano anche (ivi in quanto nelle tavole a fumetti) delle ragazzine violentissime: irreali allora, reali oggi. Ovvero il coatto R(k)X rischierebbe ora di essere vittima (con le voglie di calcetto infrasettimanale?) della sua eroinomane e ninfomane ultraminorenne.

 

Al di là delle rispettive capacità: somme nel mondo del fumetto, il personaggio pensato da Steve Tambura rimane alla fine soltanto suo. Ci ha provato Tanino a illustrarlo – dopo la morte di Tamburo nell’aprile 1986 – con l’altrui contributo (di Alain Chabat) nelle sceneggiature, ma alla fine la minor distorsione appare disarmonica. Più cattiveria contingente e meno violenza da psicoterapia mancano in quelle tavole caleidoscopiche e ipnotiche, e entrambe sono invece, rispettivamente in addizione e in sottrazione, necessarie.

 

Non so cosa ne pensa Chuck Palahniuk, probabilmente egli si inchinerebbe a un campione della distruzione gratuita come Rank.

 

Noi lo chiamiamo Rank.
Ricordo, una ventina ben abbondante di anni fa, ero a Roma per lavoro e nel pomeriggio, finiti gli incombenti e prima di andare in aeroporto, andai in un negozio di fumetti ([3]) con la metropolitana e sulla scala mobile pensavo a Rank e ai livelli della sua Roma futura e coatta. Mi era inevitabile.

 

In fondo, Rank e Lubna sono una coppia affiatata e da invidiare, mentre Corto Maltese rimane tristemente solo non avendo avuto il coraggio di lasciare l’eccesso della avventura maschilista per una Pandora Groovesnore che ancora mi farebbe battere il cuore (se non fosse che ...).

 

 

                                                                                                                      Steg

 
 
POST SCRIPTUM (del luglio 2015)
Non sono uso a cortesie, ma nel caso di specie si tratta di Michele Mordente, quello che io definisco l’esecutore artistico (con Alessandra Tamburini) di Stefano Tamburini, il quale sta pubblicando e pubblicherà materiale raro di Tambura (e non solo). Ecco la pagina Fb rilevante:
 
 
                                                                                                                      Steg

 

 

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[1] Il romanzo Di Mary Wollstonecraft Shelley fu pubblicato nel marzo 1818.
[3] Anche “fumetteria” è una parola a me sgradita siccome accettabile.



giovedì 20 febbraio 2014

SE DIVENTA “TROUSER”, IL “PANTALONE” NON MIGLIORA (semiseriamente durante la settimana della moda di febbraio 2014 a Milano)


SE DIVENTA “TROUSER”, IL “PANTALONE” NON MIGLIORA
(semiseriamente durante la settimana della moda di febbraio 2014 a Milano)
 



Una vera e propria branca ([1]) del pernicioso modificare in peggio la lingua italiana è l’Inglese a ogni costo.
 
Chi ride per “I don’t see the hour”, “rigor” o “In Milan you can be very tranquil” ([2]) non si rende conto che quelle espressioni sono di chi tenta di parlare la lingua straniera.
 
Ma perché “fashionista” (sempre che coloro che lo usano sappiano scriverlo e capiscano che quasi è un italianismo) è meglio di “modaiolo”? ([3])
 
“Brand” è sì un marchio, ma soprattutto per il bestiame.
 
Tanto che i grandi traduttori evidentemente traducono.
Ecco quindi che Snoopy nei panni di Joe Cool diventava Joe Falchetto.
 
Si badi che il problema non riguarda sbarbati e sbarbate della Barona o di Centocelle che si ispirano ai loro omologhi di quasi trenta anni fa dediti al hip hop.
Il fatto è che ormai siamo alla prassi e non più alla patologia.
 
Ovviamente anche questo ([4]) è un post ad elenco, con l’aggiunta della variante pronunce.
 
Non vi basta “brand”? Allora avete anche “taggato” e “logato”: peggio in quanto si italianizza e basta. Con buona pace dell’etimologia.
 
E poi ci sono le pronunce:
  • “tì-shirt” invece di “tee-shìrt”,
  • “brog”, si scrive “brogue” e si pronuncia di conseguenza ([5]).
E via così.
 
Non paghi, vi sono anche quelli che si gettano nel “crossover”: ecco allora “cippaggine”, in quanto non pronunciano nemmeno “ciippaggine”, come dovrebbero. Eh si perché la parola sarebbe il composto di “cheap” e “aggine”, ovvero un modesto sinonimo di “dozzinalità”, ma pronunciandolo con la “i” corta è come se scrivessero “cippaggine” che vuol dire poco ([6]).
 
Meglio allora ridere sul mobiliere brianzolo che tornato dagli Stati Uniti racconta delle ottime “t-bon stik” mangiate in Texas.
 
Variazione fuori tema: sui plurali che diventano singoli, non mi ci metto neanche: ma chi dice “la scarpa” è forse un appassionato dell’erotismo con amputazioni [7]?
 
Che fare? Nulla di costruttivo, aumentare il disprezzo e rallegrarsi per non essere parte di queste mandrie di “poveretti”. “Style coach” ([8]) inclusi ([9]).
 
 
                                                                                                                      Steg
 
 
 
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[1] Per le branchie della scienza o storpiature su liquori fernet (meglio un doppio scotch diceva qualcuno) rivolgersi altrove.
[2] Quest’ultima frase è meno errata – non è corretta ma si capisce – di quanto si pensi.
[3] È moda? Certo, ed allora: “Fashion […] beep-beep”, con i complimenti a David Bowie per i Brit Awards 2014.
[4] Rinvio al post progenitore: “Il ‘pantalone’ e il ‘caipiroska alla fragola’: il massacro della lingua italiana come alibi per evitare di affrontare molte cose”.
[5] Che non sia sinonimo di scarpe maschili stringate qualche lettore lo sa già.
[6] “Cip” significa frammento in Inglese; ma poi ci sono: le “blue-chip” cioè azioni ad alto rating (che non è proprio sinonimo di quotazione, a meno di tradurlo con quotazione di lungo periodo); c’è il cip nel poker. Mi astengo dalle espressioni idiomatiche. 
[7] Rendo omaggio a una famosa battuta di Siouxsie a un concerto dei Banshees rivolta a un focoso spettatore che le aveva afferrato la gamba …
[8]la mia longeva esperienza nel fashion e per la mia personale attitudine di STYLE COACHING”: cioè? Tutto vero, cercate se volete.
[9] Scriverò mai il post sul vizio di “andare a scuola di tutto”?

 

martedì 11 febbraio 2014

LE MANI LEGATE CON IL FILO DI FERRO


LE MANI LEGATE CON IL FILO DI FERRO

 
Magazzino 18 di e con Simone Cristicchi: monologo teatrale.
 

Vendetta dei “Titini”, ma “colpa dei fascisti”.
Ecco i morti invisibili. Nessuno responsabile, e poi ...
 

Decidete voi, voi corretti e voi scorretti.
Io sto dalla parte dei morti (io scorretto), li vedo tutti, sempre di più, sempre più giù nelle fosse, e con rabbia.
 

Provate a morire, trascinati dal cadavere della persona uccisa con un colpo di pistola. Trascinati a causa del fil di ferro che vi ha uniti per i polsi.
Morire fra i corpi senza vita che vi circondano.
 

(E poi Ungheria 1956, e poi ... Jan Palach 1969..., e prima Hiroshima e Nagasaki 1945 …)
Ma la guerra non era finita morti Mussolini e Hitler?
 

Ecco: ho scritto troppo, tutto sbava, ma quei morti e quei fuggiti li ricordano in pochi, domandatevi perché.

 

 

                                                                                                                      Steg

 

 
 

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sabato 8 febbraio 2014

CHOLAME: DEANABILIA (Sketches series - 11)



CHOLAME: DEANABILIA
(Sketches series - 11)

 


Arrivo a Fresno a fine giornata, dalla montagna.
Il sole al tramonto mi colpisce dritto negli occhi e guidare è molto faticoso anche se la strada è dritta e facile: sono raggi che vincono i miei occhiali Wayfarer pieghevoli e la protezione data da quelle piccole tavolette paraluce che ancora esistono nelle automobili.

Allora capisco il povero Donald Turnupseed.

 
Perché arrivo, io, da Cholame.
Arrivo in quanto ho voluto andarci, con un itinerario altrimenti privo di senso.
Dovevo sentire quella strada statale, passare di lì, se del caso essere investito e avvolto nello spirito del mito, oppure sentire il grottesco sapore del cattivo gusto necrofilo. Ma dovevo farlo.
 
Cholame: se sai pronunciarlo o, almeno, percepirlo è uno dei sinonimi di James Dean.
 
“Il” luogo si rivela per ciò che è: un punto di ristoro (Jack Ranch Cafè) con qualche – discreto, comunque non pacchiano – oggetto ([1]) a ricordare il Caduto del 30 settembre 1955.
Poi c’è la scultura intorno all’albero, sassolini da giardino zen, pagata dal magnate nipponico Seita Ohnishi. Su di essa frasi tratte da Le Petit Prince, a riprova di ... ([2]).
Ma erano quasi vent’anni fa.
 
Little Bastard on the way to Salinas
 
 
                                                                                                                      Steg
 

 
 
POST SCRIPTUM
Ho trovato un bel cortometraggio, intitolato Two Friendly Ghosts: James Dean e Donald Turnupseed si incontrano post mortem, nel 2011, a Cholame, allincrocio. La regia è di Parker Ellerman.
 
 
                                                                                                                      Steg
 
 
 
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© 2014  Parker Ellerman per la fotografia in calce. 
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[1] Ivi ho comprato la mia copia del volume di fotografie di Sanford Roth intitolato James Dean - The memory of the last 85 days, una pubblicazione giapponese.
[2] Beh, qualche volta faticate anche voi, anche perché se non mi capite o non vi incuriosite, semplicemente quanto io scrivo qui non significa nulla per voi. Non è una critica, ma un dato di fatto.

venerdì 7 febbraio 2014

“VORREI NON POSSO (ESSERE ALMENO UN NOUVEAU RICHE)”




 
“VORREI NON POSSO (ESSERE ALMENO UN NOUVEAU RICHE)”
 
L’origine di questo post ([1]) è antica: parto da un aneddoto.
Avevo sugli 8-9 anni, ero in auto con amici di amici (non ricordo chi), a un certo punto con il guidatore (adulto evidentemente) si cominciò a parlare di automobili: si arrivò alla “Fiat 850 coupé” e io dissi: “è un’auto da vorrei non posso”, lui mi rispose: “ce l’ha mia suocera”, ribattei: “rimane da vorrei non posso”.
 
“Vorrei non posso” (o “vorrei ma non posso”) significa desiderare qualche cosa che non si può, o non si può normalmente, avere in proprietà a causa del proprio ceto sociale. Quando il “vnp” può, solitamente il bene o il luogo non sono più quello che erano.
Qualcuno lo assimila al “would-be-ism” (“would like to be”), ma in questo caso il riferimento è direttamente al soggetto e non all’oggetto.
Evidentemente i concetti sono, comunque, strettamente legati.
 
Sentii parlare per la prima volta di Vermeer ([2]) dalla allora “fidanzata” ([3]) di un mio amico: Lxxxxa Bxxx. Era il probabilmente intorno al 1990, in quanto direi che si conversasse del film All The Vermeers in New York, del 1990.
Qualche tempo dopo, lei mi chiese in prestito ([4]) Trilogia di New York di Paul Auster, già introvabile ([5]).
Qualche elemento comune (non New Amsterdam o Mannahatta, che poi è solo una parte della città, come potrebbe pensare qualcuno) fra queste due opere c’è: allora, né Vermeer, né Auster erano popolari al grande pubblico.
 
Il 7 febbraio 2014 leggo ([6]) che sono stati venduti 110.000 biglietti per la mostra che si terrà a Bologna a partire dall’8 febbraio 2014 nella quale il pezzo più “pregiato” è un quadro di Vermeer ([7]).
La mostra ha un titolo lungo, che dovrebbe far capire che c’è altro ([8]). Inoltre essa è dichiarata come realizzata con “Capolavori dal Mauritshuis”.
 
Bene: certo tutti sanno dove è il Mauritshuis, no?
Certo tutti conoscono Vermeer da anni, da prima del romanzo di Tracy Chelaier del 1999 e da prima del film tratto da questa opera letteraria, vero?
Certo che no!
 
Eccoli i vorrei- non-posso-dell’arte, quelli che prendono il sole “a Sharm” ([9]), magari pensando che si scriva “charme” (quelli che conoscono il Francese), e che non hanno nemmeno potuto diventare dei nouveau riche e andare nell’equivalente attuale di “Santa” (Margerita) o “al Forte” (dei Marmi).
 
Ormai non ci combatto nemmeno più, li disprezzo direttamente, questi umani riuniti in masse.
 
Incidentalmente: i Vermeer li ho visti tutti da anni ([10]), mentre dell’edizione Rizzoli della trilogia austeriana ho due copie.
Ancor più incidentalmente: le mostre “vere” (quelle dove non si mescolano più artisti usandone uno come specchietto per le allodole) in Italia erano altre: come quella di Edvard Munch, a Milano, a cavallo fra 1985 e 1986 ([11]).
 
 
                                                                                                                      Steg
 
 
 
© 2014 Steg E HTTP://STEG-SPEAKERSCORNER.BLOGSPOT.COM/, Milano, Italia.
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[1] Dove anche le parole fra parentesi sono parte del titolo. Nessun sottotitolo.
Potevo anche intitolarlo “La bella vita finta e la morte vera – parte seconda”.
[2]Johannes, Jan or Johan Vermeer (Dutch: [joˈɦɑnəs jɑn vərˈmɪːr]; 1632 – December 1675) was a Dutch painter who specialized in domestic interior scenes of middle-class life. Vermeer was a moderately successful provincial genre painter in his lifetime. He seems never to have been particularly wealthy, leaving his wife and children in debt at his death, perhaps because he produced relatively few paintings” (da Wikipedia) .
Questo è tutto quello che, al momento, occorre sapere.
[3] Il termine ragazza mi pare riduttivo.
[4] Ho sempre prestato molto di rado, nella specie mi fidavo della persona come seria con “le cose degli altri”.
[5] Lungimiranza di Rizzoli editore (adesso la versione italiana è per i tipi di Einaudi).
Quasi un quarto di secolo fa, non sempre si andava per edizioni originali dei libri: faticoso reperirle senza internet. E poi non si parlano e leggono tutte le lingue, no?
[6]Delirio Vermeer, notte bianca per mostra
“Orario fino a due di notte, già 110.000 le prenotazioni
“07 febbraio, 12:47
“(ANSA) - ROMA, 7 FEB - Alla vigilia dell'apertura è salito a 110.000 il numero dei biglietti prevenduti per la mostra bolognese che porta per la prima volta in Italia La Ragazza con l'orecchino di perla, capolavoro di Vermeer diventato un'icona planetaria dell'arte al pari della Gioconda di Leonardo e dell'Urlo di Munch”.
[7] In realtà ce ne sono due.
[8]La ragazza con l’orecchino di perla, Il mito della Golden Age, Da Vermeer a Rembrandt”.
[9] Sharm el-Sheikh, per intero.
Mangiando spaghetti come a Torre Pedrera.
[10] Non per “merito mio”.
Anche “al”, i due “del”  Mauritshuis.
[11] E gli “urli” sono più di uno, per la precisione.
Ma ho il dubbio che l’autore anonimo della notizia ANSA citi, senza nominarlo, Arthur Lubow.