"Champagne for my real friends. Real pain for my sham friends" (used as early as 1860 in the book The Perfect Gentleman. Famously used by painter Francis Bacon)



martedì 29 dicembre 2015

LEMMY KILMISTER (Sketches series - 25)



Personal insignias


LEMMY KILMISTER
(Sketches series - 25)

 

Strana traiettoria quella di Ian Fraser “Lemmy” Kilmister.
Si dovrebbe comprenderlo leggendo un qualsiasi buon profilo biografico ([1]).
Un ex roadie, nato nell’anno della fine della seconda guerra mondiale, dopo qualche esperienza di seconda linea approda, come bassista, nel 1972 a un gruppo per lo meno di buona popolarità ([2]) come gli Hawkwind.
Il resto dovrebbero saperlo tutti quelli che stanno leggendo queste righe, se non fosse che: sono passati decenni, le logiche musicali con il punk un poco si sono modificate, eccetera.
 

Dunque, a parte il mistero sul suo abbandono o la sua espulsione dalla band dopo aver cantato nella registrazione della loro canzone più nota, “Silver Machine” ([3]), e nel 1977 una situazione “alla Mott The Hoople” della sua nuova e definitiva formazione: i Motörhead, tutto potrebbe finire come per molti: una navigazione più o meno a vista, e un dimenticatoio che un bacino artistico ben più ampio di quello italiano come è quello britannico (peraltro comunicante con il “vaso nordamericano”) avrebbe per lo meno propiziato.

 

Invece, succedono altri eventi: effetto punk, effetto un genere musicale inesistente come è quello della Testadimotore ([4]) dunque capostipite (ma senza epigoni per diverso tempo), effetto NWOBHM ([5]), vedete voi.
Captain Sensible ([6]) ricorda ([7]) come Lemmy suonò con loro in qualche concerto quando Brian James lasciò la quasi “sua” creatura The Damned ([8]).

 

In conclusione, Lemmy e Motörhead approdano al 1980 e hanno successo commerciale, preceduto dall’eccellente album Overkill e dal suo successore (più fortunato nelle vendite) Bomber, con quella che poi diventerà una canzone culto per il suo perfetto connubio fra testo e musica, per lo meno nel senso che può essere eseguita con successo da quasi chiunque ([9]) e può essere canticchiata in stanza da bagno e per la circa metà dell’umanità (quella maschile) conoscerla diviene una sorta di patente di legittimità comportamentale a tutto o quasi: mi riferisco a “The Ace Of Spades” ([10]).

 

L’asso di picche e la testa di porco cornuta e incatenata simbolo del gruppo ([11]) diventano così inconfondibili, i bassisti ottengono più considerazione: Lemmy canta e suona quale frontman di un trio.
Lemmy sembra immortale, con ogni e tutti i suoi abusi.

 

La verità è che gli album Ace Of Spades e Iron Fist (sebbene in tono minore del precedente) sono degli album potenti e che reggono il peso degli anni, mentre l’album dal vivo No Sleep 'til Hammersmith che li inframmezza ([12]) diventa addirittura un modo di dire ([13]).

 

La capacità di Lemmy di evitare il cliché metal scontato (ricordo i progetti con Girlschool e Wendy O. Williams dei Plasmatics) e il fatto che egli non “arrivi dal nulla” ([14]), portano a quella fine degli anni ’80 del XX secolo in cui, in una sorta di spensierata accettazione ed emersione del “diverso dalla norma”, anche i Ramones diventano popolari: ed infatti Lemmy scrive “R.A.M.O.N.E.S.” per i quattro di Forest Hills (e la esegue anche dal vivo con i Motörhead).

 

Nella decade successiva tutto diventa americano: Per i successivi 25 anni Lemmy Kilmister vive a Los Angeles ([15]) e si gode, senza eccessivi sciali, una carriera comunque costruita su basi solide che ancora si declina con Motörhead.
Egli è riverito come una leggenda vivente da una scena che è talmente zigzagante da essere incontrollabile: basta considerare il parterre de roi che affolla il precitato documentario Lemmy, le divisionen più o meno corazzate di giovani (giovinastri?) che esibiscono cinture a cartucciera e/o incroci improbabili di stivaleria che sta fra le pianure verdi del west ottocentesco e quelle più piovose di una blitzkrieg autunnale europea.

 

Rammento un’esibizione del 2007 della Testadimotore al Festival Jazz di Montreux (Confederazione Elvetica) ([16]). Sorta, se si vuole, di celebrazione definitiva.

 

Ma evidentemente i conti si pagano: non mi dilungo sulla salute di Lemmy, certo è che quando sui “social network” è arrivata la notizia del suo settantesimo compleanno il 24 dicembre 2015 essa sembrava quasi miracolosa, date le cancellazioni di concerti dello stesso anno per motivi, appunto, legati al suo non star bene.

 

Questo post è soprattutto per chi, da domani, userà una canzone dei Motörhead come suoneria di sveglia: un amico diceva di averlo fatto, più di 30 anni fa.

 

 

                                                                                                                     Steg

 

 

 

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[1] Probabilmente dovrete leggerne qualcuno e raffrontarli.
[2] Impossibili i paragoni fra decadi: basta che voi raffrontiate quante copie vendute occorrevano per un disco d’oro nel 1970 e quante ne occorrono oggi.
[3] Ne esiste anche una versione cantata da Billie Ray Martin.
[4] Il nome sembra riferito al tossicodipendente da anfetamine; la umlaut sulla seconda “o” un evidente omaggio a una sua passione per la militaria tedesca, prevalentemente della seconda guerra mondiale.
[6] Membro fondatore di The Damned.
[7] Nel film documentario intitolato Lemmy.
[8] Tuttora esistenti.
[9] Ma fate attenzione alla versione che trovate come seconda canzone nel secondo CD della versione expanded dell’eponimo album: manca qualcosa oppure c’è troppo. Un po’ come accade per una prima versione di “Pretty Vacant” dei Sex Pistols, per chi conosce questa canzone.
[10] Fra l’altro il verso “You know I’m Born To Lose” e il motto derivato: “Born To Lose/Live To Win” evocano una canzone de The Heartbreakers di Johnny Thunders, aggiungo pubblicata su disco da Track Records, cioè il produttore anche di Jimi Hendrix.
[11] Usualmente si parla di war-pg o di snaggletooth.
[12] Ma non si esibirono a Londra,
[13] Rammento le magliette della crew di Siouxsie and the Banshees durante il loro tour estivo del 1981: questo sì fece tappe a Hammersmith.
[14] Ricordo una cover di “Louie Louie”.
[15] Come noto: Los Angeles dice “fuck me”, ma a che prezzo?

martedì 22 dicembre 2015

MANIC STREET PREACHERS (INTORNO AI) E CAPACITA DI NON INVECCHIARE INTELLETTUALMENTE


MANIC STREET PREACHERS (INTORNO AI)
E CAPACITA DI NON INVECCHIARE INTELLETTUALMENTE

 

Ho rischiato più volte di invecchiare intellettualmente. Probabilmente se si supera la prima, almeno nelle successive si sa cosa si sta affrontando.
 
In certi casi il pericolo è celato nel suo apparente opposto: ci si crogiola in (con) una pretesa patente di eterna freschezza intellettuale, mentre si sta scivolando nel macchiettismo di imminente status di reduce (per definizione esso è a vita).
In massima sintesi: il punk (leggasi: l’ancora ascoltatore di musica classificata come tale) a senso unico con pancia e calvizie è triste come il beatlesiano.
 
La monomania non aiuta: se è vero che “la gioventù ti lascia/la mamma muore/te restet come un pirla/col primo amore” ([1]), sei pirla anche se leggi soltanto il fumetto Tex e niente altro, indipendentemente dall’anagrafe e dallo stato di famiglia, tanto per dire.
 
Fra pirla ed incostante ci sono molte possibilità. Anche quella di mettere in cantina per sempre il proprio entusiasmo.
I Lost Boys non hanno famiglia? Forse, ma anche quando ce l’hanno essi rimangono ragazzi senza cantine inaccessibili, in quanto continuano a visitarle ([2]).
 
Con sufficiente (non necessariamente adeguato) spirito di conservazione dunque sono arrivato – sotto i profili musicale e intellettuale – al 1992 e al 1994, come ho già scritto in questa sede, dunque in prima e seconda battuta ai Manic Street Preachers.
 
In una prospettiva barrie-ana, quella che è legge nei Kensington Gardens, due anni di scarto anagrafico, in più o in meno, fra persone sono una generazione.
Ebbene, con il punk io mi sono sempre sentito fratello minore ([3]).
 
L’unica affinità anagrafico-intellettuale l’ho provata con i Manic Street Preachers.
Come se lo scambio di informazioni fosse biunivoco. Lo so, non lo è.
 
Sotto il profilo musicale, i quattro (per me e molti sono quattro, sempre) gallesi hanno avuto la capacità – rara – di utilizzare dei generi per raccontare.
Ehi: testo E musica, non testo e una mucillaggine alla chitarra o al pianoforte. Che ne pensate?
 
Che dire poi del gioco, degli “eroi” di 430 King’s Road, dei riferimenti senza troppe spiegazioni? Anche questo ripreso senza copiare dai quattro gallesi.
 
Dunque non mi stancherò mai di ascoltare i Manic Street Preachers, alternando rabbia da disilluso e spavalderia da seguace senza rimpianti di Peter Pan.
 
E ho sempre due o tre loro magliette pericolose (anche solo per la reputazione di chi le indossa), come quelle (ho anche quelle) di Seditionaries.
 
Quelli che non “stanno belli” sono, dunque e ancora, altri. Non noi.
 
Poi c’è la versione acustica di “Raindrops Keep Falling On My Head”, ma quello è un colpo basso, molto basso e tutti sanno come sono andati a finire (o come vogliamo che siano andati a finire) Buch Cassidy e the Sundance Kid ([4]): non vecchi. Appunto.
 
 
                                                                                                                      Steg

 

 

 

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[1] “Porta Romana bella”, canzone milanese classificata come popolare, pertanto senza autori e compositori ben identificati.
[2] E magari andandoci si accorgono di aver comprato qualcosa due volte, in un eccesso di entusiasmo o di horror vacui.
[3] Da figlio unico, sono felice di mia sorella Siouxsie. Lo ero anche di John McGeoch.
[4] Rispettivamente all’anagrafe Robert LeRoy Parker e Harry Longabaugh.