"Champagne for my real friends. Real pain for my sham friends" (used as early as 1860 in the book The Perfect Gentleman. Famously used by painter Francis Bacon)



martedì 4 settembre 2012

DAVVERO LA MUSICA È RIDOTTA COSÌ?


DAVVERO LA MUSICA È RIDOTTA COSÌ?

 

Premessa informativa: Ruta 66 è la rivista musicale spagnola (probabilmente anche di lingua spagnola) più autorevole che ci sia; accade, anche, che siano molto esperti, appunto, i loro redattori e collaboratori.
Fra le sue penne più celebri c’è Ignacio Julià; egli è forse il nome più celebre all’estero, per un motivo ben preciso: Julià è uno dei massimi cultori, nel mondo, di The Velvet Underground ([1]).
Ebbene, questo giornalista ha scritto un editoriale per il numero 295 (del luglio-agosto 2012) che ritengo sia da sottoporre anche agli Italiani.

 

Mi permetto una sua traduzione in ragione dell’articolo 70 della legge n. 633 del 22 aprile 1941, ovviamente assumendomi la responsabilità per la bontà della traduzione. Parole in parentesi quadra e note sono mie.

 

 

Servire l’assoluto

“Lo leggo e non ci credo. Mi riferisco al vistoso titolo estrapolato dall’intervista con un giovane gruppo musicale nazionale – non farò nomi, la sua opinione riflette il segno dei tempi, la sua musica perita presunzione di validità [qualitativa] – che pubblica il quotidiano spagnolo di maggior diffusione ([2]). Dice così: ‘mettiamo in piedi un gruppo, però avrebbe potuto essere un ristorante’. Quindi, nell’articolo, precisano che ‘la musica è lavoro come l’ufficio’ e che loro sono, glielo ricorda giornalmente il loro commercialista, ‘un’impresa’.

“Se quest’ultima, sebbene addolori, pare una verità indiscutibile, la prima affermazione mi appare il sintomo di una delle molte patologie che oggi affligge la musica, una volta divisa fra il genio singolare di pochi e la rassegnata mediocrità del resto, oggi altro settore sovrappopolato della industria dell’intrattenimento digitale.

“Quanti gruppi risultano in realtà non necessari e tristemente congiunturali? Quante band sono semplice passatempo per giovani oziosi che decidono di sfidare la sorte? Quanti musicisti hanno realmente qualcosa di viscerale trascendente da esprimere e quanti semplicemente lo simulano per vivere per qualche mese l’avventura del rock?

“Diceva il filosofo Paul Tillich, riflettendo su ciò che è l’arte e se sia fattibile o meno discutere riguardo a questioni estetiche, che il criterio in base al quale un’opera d’arte lo è veramente passa attraverso il domandarsi se serve all’assoluto. Tutto il resto – se è apprezzata o meno dal pubblico, se funziona come artefatto commerciale, se diverrà parte del canone storico – risulta accessorio, trascurabile. Si può naturalmente addurre che il rock non è arte, che il suo aspetto ludico è pertanto giusto e necessario, che non solo si deve servire l’assoluto, che il suo aiutarci a ammazzare il tempo è già abbastanza gratificante, però valga la formulazione metafisica per allontanarci dal presente e vederlo in prospettiva. Il primo [sintomo] che avvertiamo è la nocività del suo aumento esponenziale. Quanti musicisti possono dire di aver suonato a Woodstock? Qualche scarsa decina. Quanti al Primavera Sound ([3])? Migliaia!

“Coloro i quali oggi si dedicano alla musica lo fanno per altre ragioni: la maggioranza guidata da un dilettantismo che si esaurisce in se stesso e affonda il livello medio sotto i minimi, autoconvinti dell’importanza dei loro dell’importanza dei propri sentimenti ed idee e perciò disposti a diffonderli in un modo o nell’altro, animati dalla fallace esposizione universale che forniscono le reti sociali e altri labirinti ciberspaziali, incoraggiati dall’illusione di far parte del vagone di coda di una storia in continuo riciclo, ossessionati per apparire nella foto e sperimentare sebbene in piccola scala ciò che percepirono i loro eroi, creduli davanti alla tacita promessa di far sesso senza impegno sebbene si soffra di alitosi tossica. Forse dovremmo limitare la creazione a coloro che la vivono come un impulso ineludibile, un’ossessione opprimente, nutrimento principale della loro esistenza.

“‘Parto da un punto e arrivo il più lontano possibile’, soleva ripetere John Coltrane. Quest’ambizione per raggiungere l’inesprimibile, l’imprendibile, mantiene relazione con l’assoluto al quale come umani possiamo solamente aspirare. Questo è l’accordo, prendere o lasciare. Coltrane personifica il musicista totale, quello che occupa tute le sue ore di veglia – e sicuramente anche quelle oniriche – affinando il suo istinto di improvvisazione, elaborando suoni e emozioni, leggendo a proposito di altre discipline che possano alimentarlo e assimilando tutto ciò che accade intorno a lui. Apparteneva ad una specie di esseri, lo fecero anche nel rock [i suoi simili], che passarono la vita intera consumati dalla loro arte.

“Oggi proliferano i pigmei, quando loro erano giganti. [Loro] creatori i quali non crea vergogna chiamare artisti, anime alle quali – stanne certo – mai è accaduto di ‘aprire un ristorante’. Né, ovviamente, badare al proprio commercialista. O a un cretino”.

(Ignacio Julià, “Servir al absoluto”, Ruta 66, n. 295, luglio-agosto 2012)

 

 

Che ne pensate?

Escludendo eccezioni imprenditoriali (a memoria: Linda McCartney socia del primo Hard Rock Café, e parlo di metà degli ultimi anni settanta; uno dei Rolling Stone anch’egli nell’attività ristoratoria) e un forse unicum fra i consulenti finanziari (il principe Rupert Ludwig Ferdinand zu Loewenstein-Wertheim-Freudenberg per i Rolling Stones, ancora loro), Julià non ha tutti i torti o, per lo meno, induce a far riflettere pubblico ed artisti (o sé dicenti tali), anche a fronte di talune iniziative certo non dettate da mero afflato artistico ([4]).

 

 

                                                                                                                      Steg

 

 

 


© 2012 Steg, Milano, Italia/© 2012  per l’articolo in lingua originale “Servir al absoluto” RUTA 66, 2012, SPAGNA.
Tutti i diritti riservati/All rights reserved. Nessuna parte di questa opera e/o la medesima nella sua interezza può essere riprodotta e/o archiviata (anche su sistemi elettronici) per scopi privati e/o riprodotta e/o archiviata per il pubblico senza il preventivo ottenimento, in ciascun caso, dell’espresso consenso scritto dell’autore.

 



[1] Il fatto che di esperti come lui ce ne siano, direi, una decina non fa male. Evidentemente non bastano, se sono stato costretto a scrivere un post in difesa, ancora una volta, della compianta (certo non santa, ma importante artista) Nico.
[2] Dovrebbe essere El Pais, N.d.T.

[3] Evidentemente un festival musicale spagnolo.
[4] Mi riferisco alle linee d’abbigliamento firmate, anche da Paul Weller, o alle – ben conosciute dai miei lettori – non sempre esaltanti edizioni librarie di lusso dove si compra soprattutto un autografo.

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