"Champagne for my real friends. Real pain for my sham friends" (used as early as 1860 in the book The Perfect Gentleman. Famously used by painter Francis Bacon)



lunedì 15 aprile 2013

CUOIO E BORCHIE (allora eravamo belli, puliti e stilisticamente pericolosi. Noi)


CUOIO E BORCHIE
(allora eravamo belli, puliti e stilisticamente pericolosi. Noi) ([1])

 

Da qualche anno provo notevole fastidio per l’annacquamento di alcuni simboli della gioventù. Quella vera.
Probabilmente è solo il culmine di quanto cominciò oltre 30 anni fa.
 
Non è mai esistita la necessità di indossare capi d’abbigliamento con il marchio di un prodotto merceologicamente differente, quindi il giubbotto di cuoio, se proprio doveva avere una marca, o era Schott o era Lewis Leather ([2]).
1 Ramone su 4 indossa lo Schott Perfecto nella foto di copertina dell’eponimo debutto. Qualche imbecille vi dirà che James Byron Dean ne indossa uno in Rebel Without A Cause.
Facile, da sei lustri abbondanti, riconoscere gli impostori, siano essi scapoli o ac-coniugati (copro anche gli omosessuali), incapaci di cambiare una candela alla moto e svenuti per la paura dalle parti degli uffici degli Angeli (quelli che “restano sempre zozzi”) a NYC (o altrove).
 
Nel 1981 vidi i Soft Cell al Maximus di Leicester Square, London.
Si pose quindi la necessità di indossare 2 (due) cinture ornate a fila singola di borchie piramidali: meno scorza e più pensiero, rispetto a una sola cintura con una fila a tre. Occorreva, prima, trovare due cinture (e non vi dico come sono da portare).
Gli speroni sono ancora da qualche parte, con le stud piramidali (inaccettabili tutte le altre forme) a ornarli, ovviamente, portati con gli anfibi o gli stivali di Johnson’s, dopo poco uno solo spur va indossato (io lo tenevo a destra, non sono mancino).
 
Al controllo sicurezza del bagaglio a mano, fine agosto (sempre 1981), all’aeroporto ([3]) lascio tutte le mie metalliche piramidi montate su cuoio, che in un sacchetto di plastica trasparente mi saranno restituite dal tapis roulant all’arrivo a Milano.
Ancora cuoio e borchie non sono cosa da impiegati in vena di trasgressione a breve scadenza.

 

Altri tre anni, sempre Londra: 1984, una laurea con lode ([4]).
Estate, una futura (1989-1990) ferita emotiva ancora oggi non rimarginata (dunque non porto – nemmeno – una cicatrice interiore) ([5]), e Boy di King’s Road vende quegli stivali bassi (già di Seditionaries) con borchie piatte e chiodi sulla punta ([6]), chiamiamoli rebel brogue, volendo: facce scure mi scrutano ogni volta sugli autobus rossi a due piani (ancora “aperti dietro”) che uso per andare la sera nei club o anche solo al pub ([7]): siamo ancora, per fortuna, belli, puliti e pericolosi anche quando balliamo al ritmo di una canzone di Sylvester.
 
E oggi?
Beh, a parte i dopolavoristici cuoi su cui lo czarniano Lobo urinerebbe con effetti corrosivi definitivi, vedo inutili borchie così asettiche che certo nessuna dominatrice comprerebbe un paio di scarpe con tali ornamenti metallici (indipendentemente dal colore della loro suola e il prezzo che ne consegue).
 
Risultato?
Tutto è diluito, anche se per una camicia come quella che funge da copertina di questo blog una qualunque, attempata ([8]), direttrice di pubblicazione periodica pagherebbe qualche migliaio di Euro.
 
Dedicato a tutti i lazy sod che arrivano da un “Satellite” ([9]).

 

 

                                                                                                                      Steg

 

 

 
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[1] Di questo post esiste una versione con le note complete, anche quanto a nomi propri, qui invece contraddistinte da “[…]” per le parti omesse e “x” per i nomi (nessun errore di battitura alla prossima nota 5, preciso).
Talvolta la prosa si fa privata.
[2] Poco importa che la britannica Lewis Leather oltre ai suoi modelli copiasse il feticcio supremo della newyorkese Schott: il Perfecto. Il mio lo comprai nell’estate 1985, prima che il cuoio diventasse più leggero e si sentisse la necessità di marchiare le chiusure, in Laguardia Square, Manhattan.
[3] London, ma non ricordo dove, se non che avevo visto Eraserhead a mezzanotte in un cinema di King’s Road, avevo dormito - forse - due ore con sveglia accesa sul pavimento della mia stanza, avevo usato un autobus notturno, poi un pullman da Tottenham Court Road, una Guinness alle sei di mattina al bar dell’aeroporto dopo il check in.
[4] […].
[5] Pxxxxxxa – oggi Mxxxxo […].
La Cicatrice interieure è un film di Paul Garrel in cui recita Nico. 
[6] Allo studio legale dove lavoro mi chiede il collega biondo cosa ne faccio: gli rispondo che, certo, li indosso.
[7] Ciao Dxxa.
[8] Von hinten Lyceum, von vorne ... Museum, vero Gxxxxxo?
[9] Canzone dei Sex Pistols che, necessariamente, trovate ab origine solo sul retro di un sette pollici, o in un bootleg butterato come un appestato dal vaiolo comprato dove Portobello diventa terra di teppisti, guttersnipe?, quando li acquistavamo solo noi, 36 anni fa. Altro che giornata annuale del vinile!

2 commenti:

  1. Ah, rimembranze non Leopardiane, per fortuna.

    BLACK LEATHER JACKET.
    All’inizio del punk -e per un bel po’- il giubbotto di pelle era un no-no, se la guardavi dall’Inghilterra. Era cosa da rockers prima e da gay dopo: mi ricordo di ceffoni rifilati da rappresentanti di queste due genìe ai malcapitati punks (chiedere ad Alan Jones nei suoi giorni al Seditionaries, tanto per citarne uno: lui era uno di quelli che i ceffoni li dava). Lungi dall’associare black leather e contesto naturale (il rock’n’roll vero, Gene Vincent e soprattutto i blousons noirs fans dell’ ‘Ange Noir’ Vince Taylor a Parigi), poco contavano le foto dei Ramones: Perfecto, sì, ma loro avevano addosso anche giubbottini ‘civilian’ con polsi e girovita in maglia à la Henry Winkler. Era l’unico modello che nel 1977 si trovava, e faticosamente. Qui da noi quando andavi a cercare un giubbotto di pelle nera ti sentivi immancabilmente dire dal negoziante: “Ah, ho capito, lei vuole il giubbotto di Fonzie!”. Poi ci penseranno i primi e poco lungimiranti negozi da centro milanese (Corneil’s e via via gli altri). Per i puristi, il Lewis è roba da Stiff Records (il più comune era foderato in rosso -orrore!-, vedi il retrocopertina del LP ‘Stiff Live Stiffs’) e lo Schott va bene solo se non trovi l’Unico e Originale: il Buco di Johnny-Marlon Brando in ‘The Wild One’. Ma la ditta ai tempi era fallita, e credo solo di recente ne abbiano fatta una nuova versione. La Triumph un paio d’anni fa ne produsse una manciata di capi insieme al modello di moto di Johnny/Marlon: mi invitarono alla presentazione alla stampa, e ovviamente sul giubbotto c’era la scritta ‘Johnny’, il teschio/BRMC sulla schiena. Tutti i particolari a posto tranne il modello del giubbotto, che era clamorosamente diversissimo e inferiore all’originale (saltò poi fuori che la Buco NON aveva concesso il modello). Morale: ho addosso a rotazione decine di giubbotti e giacconi black leather, NESSUNO di particolari marche. Anche in termini fashion: “The purpose is NOT to wear a tag, but something that WORKS”. Non mi ricordo chi l’ha scritto, però.

    STUDS.
    La borchia piramidale da sex shop del periodo post-1976 non è quella con i quattro spigoli curvi/bombati visti anche al polso di Carlo Verdone e Bombolo in libera uscita: originariamente gli spigoli venivano su dritti (la versione bombata è quella da heavy metal, tanto per intenderci). Capitolo bracciali: quelli veri si chiudevano con bottoni automatici cromatissimi (non con le orrende due fibbiette a mostrare la pelle del polso sotto), con le borchie che compivano quasi l’intero giro del polso. Il cinturone a tre file era una cosa punk annessa poi dai metal, più punk i cinturoni con borchie coniche piccole disposte a fila. Gli speroni sono una cosa da ‘dopo’, soprattutto se portati sugli anfibi –che non saranno mai e poi mai una cosa punk. I fazzoletti nelle back pockets sono altra faccenda, ma sarebbe stato divertente raccontare in giro che erano una cosa punk e vedere di nascosto l’effetto che faceva.

    BOOTS.
    Gli stivaletti bassi a cui ti riferisci sono i ‘Boots & Eagle’, prodotti da Seditionaries verso la fine della sua saga (1980-81). Gli originali sono di pelle di alta qualità, le borchie piatte e gli spikes sulla punta sono robusti e in generale sono all’altezza della fama (e del prezzo, esorbitante per l’epoca –sui 50 pounds). Tutti i marchi ne fecero una versione apocrifa, da Marley a Cox. Alla mostra di qualche anno fa su Vivienne Westwood al Palazzo Reale a Milano ho visto imitazioni spacciati per originali del Seditionaries, nella mia più lieta ilarità.

    CONCLUSIONE
    Se non è marrone e non maleodora, nessuno è contento. A partire da chi tenta di sbolognare -a chi se lo merita- chilometri di strisce di pelle rigenerata con borchiette da Avril Lavigne. Il resto è silenzio e scarpe di Louboutin sui piedini di Dita Von Teese -un numero in più del suo, che tanto gliele hanno date “a gratis”. Tutte piene di borchiette, ovvio, che non abbiamo tempo da perdere: non saremo qui a pettinare le bambole, ma a bambolare i pettini sì.




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  2. Specifica doverosa. Il Perfecto Schott è da sempre considerato il giubbotto per eccellenza, ovviamente, e la leggenda vuole che sia quello indossato da Johnny/Marlon Brando in 'The Wild One', questo a causa dell'indizio delle stellette sulle spalline. Ma i maniaci non avranno mancato di notare come il modello in questione avesse più a che fare con lo standard riprodotto dalla Buco, più che con i fratelli Schott. Leggenda vuole che il reparto costumi di 'The Wild One' avesse ordinato un numero imprecisato di giubbotti alla Schott, ma la cosa non è confermata da evidenze di alcun tipo. E' certo che Brando preferisse il Buco di fine anni '40 -a sua volta ispirato ai primissimi Perfecto-, in seguito preso a modello paradossalmente dalla stessa Schott nelle sue versioni ipercelebrate di inizio anni '50. Pheeewww.

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