"Champagne for my real friends. Real pain for my sham friends" (used as early as 1860 in the book The Perfect Gentleman. Famously used by painter Francis Bacon)



domenica 20 novembre 2011

WHAT’S MY NAME: The Clash



Copia promozionale di White Riot"
(il retro di copertina riproduce due ritagli dal libro Generation X)




WHAT’S MY NAME: The Clash





È faticoso scrivere delle tre band che hanno scolpito, letteralmente, la mia vita: The Clash, Siouxsie and the Banshees e Manic Street Preachers.
Le ragioni sono plurime: maggior difficoltà nell’avere una visione imparziale, coscienza di una conoscenza ([1]) assolutamente fuori dalla media del resto (e spesso il resto non è poco anche solo per il numero di fonogrammi che stanno negli scaffali nei formati più disparati e poi c’è la bibliografia), conseguente timore di un ovvio che anche se fosse solo personale sarebbe comunque imperdonabile, per S&TB una frequentazione amicale che rende quasi idiota lo scriverne.
Però ci provo, in ordine cronologico.


Nel 1977 la copertina di The Clash, l’album, poteva non essere decisiva, ma forse lo era il suo retro.
In Italia nel 1977 era più difficile invece guardare alla copertina di “White Riot”, il singolo, in quanto quella non era arrivata, bensì ci si doveva accontentare solamente della custom sleeve della CBS. Certo poi i volenterosi avrebbero rimediato alla pecca (l’edizione nazionale è rara perché… ha la copertina di “Complete Control”: una idiozia davvero enorme in quanto – come chi legge questo blog sa – la sleeve originale può essere anche materia da tesi di laurea, dati i riferimenti che contiene ([2])).


Dubito che ci sia qualcuno che preferisce la versione dell’album di “White Riot”, la quale manca di immediatezza e sirena.
Ma l’esordio di The Clash, con il cantato di Joe Strummer che è caratterizzato da una pronuncia che la speed ha forgiato letteralmente sgretolando la sua dentatura e due chitarre le quali non indulgono in nulla, una sezione ritmica già sicura (poi invincibile con Topper Headon) si attesta fra i capisaldi di una stagione indimenticabile ed irripetibile anche se io fossi morto l’anno precedente.
Incidentalmente: la mia canzone preferita “come da album” è “Garageland” che lo chiude, però le mie assolute sono ben altre e trascendono quei trenta centimetri di vinile nero.


Give ‘em Enough Rope è un grande album se ci si concentra su ciò che canta Mick Jones.
Del resto l’immensità dell’epoca è data dai singoli non contenuti negli album, quindi i ritardatari dovranno aspettare qualche tempo per deliziarsi con “(White Man) In Hammersmith Palais”, ma anche con “Clash City Rockers”.
Comunque ciò che la gang (last in town) ha perso in studio lo recupera dal vivo, con un act irresistibile ed ancora incontaminato da certa slabbrature strummeriane che possono, ed infatti hanno, solamente entusiasmare lo spettatore medio dei festival de L’Unità et similia ([3]) avulso da una dimensione anche eroica e esteticamente contrapposta rispetto al comune pensare: Pashion is a fashion”: anyone?
Quindi la voce certo meno emblematica di per sé della prima chitarra regala delle autentiche perle, fra le quali – anche senza conoscere il significato delle liriche che la rendono ancor più struggente – devo preferire “Stay Free”.


Poi, tutto il resto è in discesa, non tanto perché la qualità cali irrimediabilmente: London Calling è un bell’album se si ascoltano le canzoni singolarmente, bensì perché mancano le sensazioni di esclusività, di freschezza, di “nostro” contro di voi, di domani non ci saremo più … insomma dalla fine del 1979 in poi solo i vecchi si sentiranno giovani con The Clash, i suoni sono altri e già evocati anche in precedenti mie righe.
Per i più avventurosi, si consiglia l’edizione doppia di Combat Rock, ovvero Rat Patrol From Fort Bragg.


This is Joe Public speaking!



                                                                                                                                             Steg




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[1] Scusate la cacofonia.


[2] Furono poi ristampati con copertina, i primi singoli, ma le differenze si vedono, se si vuole: dal cambio del copyright nelle etichette, a certe piccole varianti nella sagomatura delle copertine: attenzione quindi a non millantarsi seguaci della prima ora, perché vi scopriremo come al solito e vi metteremo all’indice.


[3] C’è da chiedersi da cosa derivasse quella schizofrenia che alla fine sarà elemento di rottura fra un Joe sempre alla ricerca di una credibility quasi sindacale ed un Mick invece fedele (o semplicemente più conscio della medesima) all’immagine di artista che deve in qualche modo anche educare stilisticamente chi sta sotto il palco.



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